L’Europa è nata nella mente di alcune personalità – Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Altiero Spinelli – che hanno riflettuto sulla tragedia di due dittature e di due disastrose guerre mondiali ravvisandone le cause nella ideologia nazionalista. La Comunità è stata costruita sin dall’inizio attraverso il metodo democratico; i trasferimenti di potere dagli Stato nazionali alle istituzioni comunitarie è avvenuto attraverso il consenso di tutti gli Stati membri. L’Unione Europea è il primo caso nella storia moderna in cui degli Stati indipendenti avviano un processo di integrazione economica e politico in modo pacifico.
La cooperazione economica e monetaria era già sviluppata nel dopoguerra sulla base degli accordi di Bretton Wood, risalenti al 1944. Il sistema monetario internazionale era basato sulla fissazione delle parità monetarie nei confronti del dollaro, privando di fatto i Paesi della loro sovranità monetaria. Era il prezzo da pagare per consentire lo sviluppo del commercio internazionale.
La fine del sistema di Bretton Wood, deciso unilateralmente dagli Stati Uniti nel 1971, spinse l’Europa ad avviare una nuova forma di cooperazione monetaria per ridurre le fluttuazioni dei cambi. Il sistema monetario europeo attribuiva alla moneta più forte, il marco tedesco, il ruolo di ancora per le politiche monetarie degli altri Paesi.
L’unione monetaria comporta tuttavia una cessione di sovranità compensata però dai vantaggi derivanti dalla stabilità dei cambi e dall’allineamento dei tassi di interesse. L’unione è stata costruita sulla base dell’ipotesi che non ci sarebbe state crisi economiche e finanziarie; non erano previsti meccanismi centralizzati per gestire le crisi; si pensava erroneamente che la coerenza delle politiche fosse assicurata dal loro coordinamento. Solo con la grande crisi del 2008 i governi hanno capito che era necessario completare l’unione monetaria con quella bancaria (sono le banche di creano liquidità) e con strumenti di aiuto come il Fondo salva Stati.
Nell’approntare le riforme necessarie l’Europa si è mossa più rapidamente degli Stati membri; in tre anni è stato modificato l’assetto dei poteri economico e politici. Il processo di integrazione da solo non basta e comunque richiede tempi medio-lunghi. Quello degli Stati Uniti ha richiesto duecento anni, dopo una guerra civile e numerosi crisi economiche; la Banca centrale statunitense
è stata creata solo nel 1914, il sistema fiscale è stato unificato negli anni Trenta.
Chi si oppone all’euro in realtà vuole tornare ad una situazione in cui gli Stati potevano usare la moneta per finanziare la spesa facile: la recente esperienza ha dimostrato che i Paesi europei che hanno affrontato la crisi globale con una situazione fragile della finanza pubblica hanno sofferto
maggiormente. L’adozione delle politiche di austerità non è stata imposta dall’Europa ma nasce dalla necessità di recuperare la fiducia degli investitori e di arrestare la fuga dei capitali.
In Italia le misure correttive della finanza pubblica sono state introdotte nel 2012 quando i mercati internazionali hanno cominciato a manifestare dubbi sulla sostenibilità del debito e lo “spreed” rispetto ai “bund” tedeschi è schizzato in alto. Con un debito pubblico salito oltre il 130 per cento
del prodotto interno lordo l’Italia è vulnerabile a fattori sia interni che esterni.
Durante i momenti più acuti della crisi i titoli del debito pubblico erano considerati più simili a quelli greci che a quelli tedeschi e l’Erario ha dovuto pagare interessi più pesanti. Nei Paesi colpiti dalla crisi la fiducia nell’euro è diminuita, in Italia di 35 punti; è molto facile la tentazione di addossare le colpe alle istituzioni europee; le manovre di finanza pubblica vengono presentate ai cittadini come imposte dall’Europa.
La colpa è invece di chi ha governato il Paese: negli anni Ottanta il debito pubblico è passato in un decennio dal 60 al 120 per cento del Pil. Nel primo decennio del Duemila si è ripreso ad aumentare la spesa pubblica vanificando i vantaggi competitivi derivanti dall’adesione all’euro. Invertire il processo di integrazione realizzato sin qui non solo è difficile ma è anche pericoloso: l’Italia si troverebbe sola in un momento in cui occorre la cooperazione per affrontare la sfida di un mondo globalizzato e interconnesso.
Le attuali difficoltà non sono determinate dall’euro ma dalla incapacità dei Paesi di riformare i loro sistemi economici e sociali, di attuare le riforme strutturali in settori importanti per la crescita, come il mercato del lavoro, dei beni e dei servizi, l’innovazione, il welfare, la giustizia, la pubblica amministrazione, l’istruzione; sono settori che appartengono alla sovranità degli Stati. Le cause della bassa crescita economica dell’Italia risalgono alla prima metà degli anni Novanta e si sono progressivamente aggravate con la crisi globale scoppiata nel 2008.
Prendersela con gli altri, addossare la colpa ad un “capro espiatorio”, è comodo ma non risolve nulla; è un diversivo, un alibi per non fare autocritica. Occorre invece capire che i problemi sono soprattutto di origine interna e che per risolverli c’è bisogno di profonde riforme.
La crisi economica ha provocato disagi e sofferenze a una parte consistente del nostro popolo, soprattutto a quelli che hanno perso il lavoro e ai giovani che non lo trovano. Essendo una crisi globale, la più grave dopo quella degli anni Trenta del secolo scorso, è difficilmente controllabile dagli Stati nazionali e dalla Comunità europea che non è ancora completata nelle sue strutture.
Tuttavia i danni sarebbero stati minori se, negli ultimi vent’anni, i governi avessero attuato le riforme. Gli italiani sono giustamente indignati per il lassismo e l’inadeguatezza del ceto dirigente che, vivendo tra gli agi, non sempre si rende conto delle difficoltà della povera gente. Però anche i nostri concittadini sono in un certa misura complici della scelta di uno schieramento che non ha mai fatto mistero di voler lasciare le cose come stanno, compresi i privilegi di chi sta bene. Nei momenti di difficoltà gli italiani si rivolgono alle forze “nuove” che, non essendo compromesse nel governo del Paese, si presume possano fare quello che i loro predecessori hanno tralasciato. È accaduto ieri con la Lega di Bossi e sta accadendo oggi con il Movimento di Grillo. Ma la “novità” non è un merito; l’onestà è tutta da provare e la mancanza di competenze non è un buon segno per chi deve affrontare problemi di enorme difficoltà come gli attuali.
Quando poi la politica si declina con la protesta, spesso violenta e volgare, non c’è molto da sperare. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della C.E.I., ha efficacemente sintetizzato il momento attuale: “ Preoccupa il fenomeno di rivolta, di ripulsa, di rifiuto; in sostanza di sfiducia.
Ma se una società non è tenuta insieme dalla fiducia reciproca, degenera nel tutti contro tutti. Distruggere non basta, occorre costruire. Ma per chiedere fiducia occorre essere affidabili, onesti, coerenti”.
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