Il 25 maggio prossimo si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e le previsioni accreditano un incremento dei suffragi a favore delle forze politiche che avversano l’Unione Europea e l’euro.
In Europa è molto forte la tentazione di dare la colpa di tutti i problemi irrisolti alla istituzione comunitaria in quanto il processo di integrazione ha comportato il trasferimento di molte competenze dagli Stati nazionali all’Unione ed è quindi diventato meno facile capire chi esercita il potere.
Quando le cose non vanno bene è facile addossare all’Europa responsabilità che non ha ed è quindi possibile cadere nell’inganno da parte di coloro che non hanno sufficiente comprensione dei temi economici e dei meccanismi decisionali europei.
Le politiche nazionali di risanamento dei conti pubblici sono politicamente costose perché richiedono tagli alla spesa pubblica oppure l’aumento della tassazione. In situazioni del genere le manovre di finanza pubblica vengono presentate ai cittadini come imposte dall’Europa. L’Unione Europea è un capro espiatorio ideale e vi ha fatto ricorso, nel 2011, l’allora premier Berlusconi che ha trovato comodo inventare un vincolo esterno piuttosto che riconoscere le proprie inadempienze.
Quasi la metà degli italiani ritiene che l’Europa sia responsabile delle misure di austerità prese dal governo italiano. Non è così perché le competenze europee riguardano solo alcun i settori, come la moneta, la politiche commerciali e di concorrenza mentre gran parte delle decisioni strutturali sono rimaste nella competenza nazionale, come il mercato del lavoro, il sistema di sicurezza sociale, l’istruzione scolastica e universitaria, gli investimenti per la ricerca, le infrastrutture, la giustizia e la pubblica amministrazione. Sono questi i settori da cui dipende il potenziale di crescita del Paese e in cui l’Italia è paurosamente in ritardo per la mancata attuazione delle riforme di struttura invocate da più di trent’anni.
La crisi economica mondiale, iniziata nel 2008 e non ancora conclusa, ha reso più acuti i problemi della mancata crescita e ha reso più sensibili i governi alle prospettive di sviluppo. L’Europa è stata però più pronta a realizzare le riforme necessarie rispetto al governo nazionale; nel giro di pochi mesi ha creato il Fondo salva stati, il Sistema di vigilanza bancaria unico e il Fiscal compact: sono strumenti nuovi di cui l’Europa non disponeva prima della crisi.
La crisi economica ha poi dimostrato che la Banca comune europea è in grado di agire rapidamente e grazie ai suoi tempestivi interventi è stato possibile, in pochi mesi, ridurre lo “spread” tra i titoli italiani e i “bund” tedeschi da cui dipende il costo del nostro debito pubblico e la sua sostenibilità. Il populismo di una parte dei partiti italiani dimentica le responsabilità gravissime di chi ha governato negli anni Ottanta quando, nell’arco di un decennio, il debito pubblico è passato dal 60 al 120 per cento del prodotto interno lordo. Dimentica che con l’entrata nell’euro l’Italia ha potuto fruire di vantaggi competitivi, come la diminuzione del costo del denaro, che ha sprecato riprendendo ad aumentare la spesa pubblica.
Non sono l’Europa e l’euro i responsabili della crisi che l’Italia sta attraversando e che era iniziata già prima della crisi economica globale; il nostro era già il Paese che cresceva di meno nel mondo (dopo Haiti) per effetto di una produttività stagnante e di un sistema economico irrigidito. Gli italiani devono capire che i problemi sono soprattutto di origine interna e che per risolverli c’è bisogno di profonde riforme.
In un Paese molto indebitato come il nostro è anzitutto necessario assicurare la sostenibilità del debito pubblico e la ripresa della crescita da realizzarsi attraverso le riforme in quei settori dove abbiamo accumulato ritardi: la scuola, il mercato del lavoro, la ricerca, l’evasione fiscale, l’endemica corruzione, il peso della burocrazia, la lentezza della giustizia, la poca concorrenza dei servizi. Non ci salva la diffusa tendenza dei nostri concittadini a dare la colpa dei propri mali bagli altri; dobbiamo fare autocritica, riconoscere le nostre insufficienze; l’ Europa è stata di aiuto non è stata un potere di costrizione.
Eppure l’Unione Europea è ancora distante dalle aspirazioni dei cittadini; è una costruzione giovane che ancora deve essere completata, ma è un’illusione pensare che le sfide della globalizzazione possano essere affrontate meglio dai singoli Paesi, molti dei quali hanno dimensioni geografiche molto modeste. Per competere in un mondo interconnesso è necessario raggiungere un livello di integrazione economica e politica ben maggiore di quello attuale.
Le forze politiche che sviluppano una critica generalizzata nei confronti delle istituzioni europee e propongono di uscire dall’euro e dall’Unione, dimostrano una pericolosa mentalità provinciale incapace di capire le connessioni economiche internazionali. Non di rado si tratta di un calcolo elettorale: puntare sul disagio e la rabbia dei cittadini per ottenere consensi; non su una proposta costruttiva ma su un azzardo. Capovolgere la storia, invertire il processo di integrazione europea realizzato negli ultimi sessant’anni non è soltanto difficile, è anche pericoloso. Tornare indietro, smontare i meccanismi esistenti nell’Unione nell’illusione che sia meglio agire da soli ci porterebbe all’isolamento e all’abbandono da parte delle altre nazioni.
Non si può scegliere sulla base dei preconcetti e dei “sentito dire”: se ci si sofferma un attimo a ragionare si capisce che la soluzione non è uscire dall’Europa, bensì costruire un’Europa migliore.
You must be logged in to post a comment Login