Sono lontani i tempi, anche se graditi alla memoria, del Manifesto di Ventotene 1941, con cui Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, padri dell’europeismo, proclamavano come necessaria la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani. L’ispirazione veniva anche dalle pagine scritte nel 1919 sul Corriere della Sera da Luigi Einaudi al termine del primo conflitto mondiale: si invocava per converso la creazione di un solido Stato internazionale. Nel 1943 veniva creato il Movimento Federalista Europeo. Un primo avvio si aveva conla Comunitàcarbo-siderurgica di Jean Monnet; il trattato istitutivo della CECA, firmato il 18 aprile 1951, entrava in vigore il 23 luglio 1952.
Mentre il cammino verso l’unione monetaria procedeva, così non era in parallelo per quello politico. Il Trattato di Maastricht ha sancito la separazione della politica monetaria (BCE) rispetto a quella fiscale, decisa dai singoli governi. Il fiscal compact non è un trattato dell’Unione, ma un trattato tra governi nazionali, intergovernativo; essi hanno concepito ed elaborato un timido disegno d’unione bancaria. Oggi ci si accorge che i margini di flessibilità dell’istituzione deputata al controllo delle singole situazioni (la Commissione) sono ridotti quasi a zero. I parametri sono cesellati sino al millimetro, mentre invece occorre restituire flessibilità e intelligenza al sistema in modo unitario e concordato. Il Parlamento europeo non si limita a discussioni accademiche ed auspici, perché i parlamentari con la loro pressione hanno migliorato ad esempio, e non di poco, il disegno d’unione bancaria dei governi.
Certo preoccupa il fallimento, almeno parziale, del processo costituzionale ed è di tutta evidenza il nullismo denunciato anche di recente in politica estera. L’Europa si muove in ordine sparso sull’energia (la Germaniadipende dalla Russia per un’importazione pari al 38%) e si rivela strutturalmente debole sia sul confine atlantico che su quello mediterraneo. Retoriche e burocratismi si accompagnano. Le burocrazie tecnico-finanziarie dell’Unione sono onnipervadenti e costose ed è da temere una probabile serrata di queste burocrazie centralistiche.
Nel contempo si assiste al fenomeno delle sinistre attardate su tradizionali e superate politiche di welfare. È ormai consuetudine imputare la responsabilità della crisi all’euro, che nella realtà è un sistema forzoso di cambi fissi. Lo stesso Schroeder l’ha definito un bambino malato nato prematuramente e il passaggio dalla lira all’euro non è stato a suo tempo controllato debitamente dal governo Berlusconi.
Dall’introduzione dell’euro il prodotto interno pro capite è salito in tutti i paesi europei, ma in Italia è calato del 3,1%. Di qui tutte le nostre difficoltà, specie dopo la tempesta finanziaria del 2008 (da cui sono nate le nuove regole bancarie).Così, non meno che altrove, è un proliferare di proteste, un prosperare di atteggiamenti che si ispirano al populismo e al nazionalismo. Il discorso vale per Marine Le Pen in Francia, per Geert Wilders in Olanda, per la destra ungherese. Da noi al Nord le proposte di Claudio Borghi Aquilini, economista della Cattolica, si saldano con le azioni di Matteo Salvini, segretario della Lega. Su un diverso fronte i 5 Stelle di Grillo si battono per la cancellazione del fiscal compact, che ammazzerebbe l’Italia. Ma pure contrari alle politiche di contenimento e austerità vigenti si pronunciano il 41% degli elettori di Forza Italia.
Si proclama che un’uscita ben programmata dall’euro consentirebbe di svalutare un debito pubblico ormai insostenibile e la necessità di far ripartire il mercato interno attraverso un’inflazione programmata. Si annuncia che l’inflazione non è uno spauracchio, considerati gli esempi di Giappone e Stati Uniti. Si constata che inglesi e norvegesi senza moneta unica non versano in affanno. Mentre nel 2008 gli italiani si dichiaravano a favore dell’uscita dall’euro per il 12% della popolazione, la percentuale è salita al 21% nel 2012 e si attesta oggi sul 33% di fronte all’impoverimento diffuso e all’accentuarsi di una ingiustizia sociale decisamente fuori equilibrio.
Se si deve riconoscere che al momento (e da tempo) l’Unione Europea tutela di più i mercati e gli equilibri finanziari piuttosto che i cittadini, se giustamente si accusa l’abbondanza soverchiante di normative e di eccessi burocratici, se la solidarietà è solo invocata, ma non mai attuata, nel prevalere di parametri e criteri solo formali, bisogna però tenere presente l’allarme del Presidente di Confindustria, Squinzi, secondo cui, senza l’euro, in due-tre anni perderemmo il 25-30% del PIL. Con l’uscita dall’euro è da prevedere una svalutazione della lira tra il 30 e il 50% con tutte le devastanti conseguenze negative (forte aggravio di costi per le importazioni in termini di energia e di materie prime ecc.).
Ora ci si impone uno scatto d’orgoglio e di dignità; bisogna ritrovare le ragioni di un europeismo sano, fatto di solidarietà, con netto recupero sulle logiche di mera austerità finora perseguite con implacabile determinazione da Germania e paesi nordici a loro esclusivo vantaggio. Ripariamo i gravissimi danni prodotti dalle politiche demagogiche di sperpero delle risorse pubbliche a danno delle future generazioni. Fare i compiti è un dovere sacrosanto e inevitabile per noi stessi, procedere alle riforme è altrettanto necessario, perché l’Italia non è seconda a nessuno se fa spazio al suo spirito creativo e alla sua genialità inventiva. Non serve continuare a recriminare. E bisogna trovare su questa strada le opportune alleanze.
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