Eccoci giunti alla canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II, o meglio, almeno secondo il mio modo di pensare, di Angelo Roncalli e di Karol Woityla. Canonizzazione significa riconoscimento ufficiale, incontestabile da parte della Chiesa Cattolica di un rapporto straordinario, privilegiato, del “santo” con Dio, tanto che secondo il diritto canonico, è necessario riconoscere un intervento straordinario di Dio stesso, il “miracolo”, per poter riconoscere la santità della persona di cui è stata promossa la causa di beatificazione.
Angelo e Karol sono santi non perché papi, ma forse papi perché santi, perché lo Spirito ha mandato due persone speciali, straordinarie, nei momenti storici in cui la Chiesane aveva particolarmente bisogno. Così almeno, ben prima del riconoscimento canonico, aveva giudicato il popolo cristiano, la fama di santità che il primo segno necessario perché inizi un processo di beatificazione. Perciò non solo a me è apparsa strana la divulgazione, postuma, dei dubbi del cardinale Martini sulla opportunità di proclamare la santità di Giovanni Paolo II, come emersi da un cenno in un libro di Andrea Riccardi, rilanciato con ben maggiore enfasi da un articolo di Luigi Accattoli sul Corriere. Non mi meraviglio affatto che il Corrierone, il mio ‘giornale-spia’ preferito, (per paradosso ma non per scherzo, ma sarebbe troppo lungo spiegarvene la ragione) prosegua nel suo intento di ridimensionare la parentesi woytil-ratzingeriana e spingala Chiesa a ritirarsi nel suo mondo fatto di culto, di invocazioni per la pace e di soccorso ai poveri, lasciando a lorsignori l’onere di occuparsi di tutto il resto.
Mi meraviglia un po’ che costoro non abbiano ancora capito che la Chiesadi Bergoglio non è affatto diversa, anzi, semmai diverrà sempre più invadente, nella sua pretesa di giudicare tutto l’umano. Piuttosto mi meraviglia una certa debolezza, una impropria vacuità nelle risposte ecclesiali, quelle riportate dai giornali e dalla televisione, proprio di fronte a un’evidente scorrettezza dell’interlocutore nell’enfatizzare alcune affermazioni relative alle strategie di governo della Chiesa come organizzazione, isolandole dalla risposta all’unica domanda ineludibile: “ma costui è stato un uomo segnato (sancitus, sanctus,) colpito da Dio?”.
Risponde, per esempio, monsignor Oder, postulatore della causa di canonizzazione: “Con dispiacere ho letto sulla stampa stralci della testimonianza del cardinale Carlo Maria Martini interpretati in chiave di una sua opposizione alla santità di Giovanni Paolo II: si tratta sicuramente di una chiave di lettura non giusta e non vera… Dobbiamo semplicemente essere tutti consapevoli che esistono modi di pensare diversi sulla opportunità di canonizzare i Papi. Ma questo – ha sottolineato – è un ragionamento più generale, dunque non applicabile al caso specifico di Giovanni Paolo”.
Quel che dice il prelato canonista non è assolutamente sbagliato, dal suo punto di vista, ma a me, semplice membro della Chiesa militante, dice poco; quello che vorrei capire è che cosa c’entra l’esempio dato da coloro che la Chiesami addita come santi con la mia vita, i miei dolori e le mie gioie, le mie decisioni e i miei dubbi, i miei peccati. Non sapendo rispondere da me, ho guardato un po’ in giro, e ho trovato una risposta più soddisfacente in poche righe, guarda caso, di Giovanni Paolo II: “Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni «geni» della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa «misura alta» della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione. È però anche evidente che i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa” (Novo Millennio Ineunte, 31).
Insomma, la santità non è una perfezione umana o una teoria bellissima, una scienza sociale tenacemente applicata o l’eroismo di un gesto generoso; è la vita della Chiesa stessa, nel suo legame quotidiano ed eterno con Cristo, nella carnalità delle persone che la compongono e la vivono, momento per momento. Non etereo spiritualismo, non giustizia adamantina, non perfezione farisaica, non mortificazione autolesionistica, ma carne viva di uomini che pregano e mangiano, che studiano, leggono e scrivono, suonano il piano e fanno teatro, assistono i bisognosi e confessano i peccatori, che cantano e nuotano e sciano. Cosa difficile da capire per una mentalità mondana, per cui contano di più gli schemi e i progetti della cultura dominante.
La mia conclusione è questa: ben vengano i papi santi, meglio ancora, che qualche santo diventi papa, poco importa se qualcuno criticherà, a posteriori, i suoi metodi di governo e le sue scelte o enfatizzerà i suoi errori: perla Chiesasarà sempre meglio un santo ingenuo che un furbo navigatore delle acque di questo mondo.
Se poi vogliamo un aiutino per conoscere meglio questi due santi così vicini a noi, così contemporanei, senza scomodare libroni e teologi, basta acquistare il supplemento mensile di Avvenire, “Luoghi dell’Infinito” di aprile; delle copertine dedicate a Francesco da Vanity Fair e da Rolling Stones potete invece fare a meno.
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