L’Istituto dove il pregiudicato Silvio Berlusconi sconterà la pena per i reati commessi, nel tempo dell’ultima guerra fu il luogo dove il cardinale arcivescovo di Milano Ildefonso Schüster “confinò”, in attesa della Liberazione, i suoi sacerdoti finiti per mano nazifascista a San Vittore. Un luogo storico nella vicenda largamente dimenticata di quel “basso clero” che fu spesso determinante per i destini della Resistenza.
Sorto come “Ospizio Sacra Famiglia” e retto dal 1919 da monsignor Luigi Moneta, lecchese, classe 1886, con il motto “Super omnia charitas”, aprì le sue porte non solo a decine di sacerdoti, ma a ebrei, antifascisti, militari in fuga dalla RSI. Fu, come scrisse lo stesso Moneta, “una specie di campo d’internamento” sotto la diretta responsabilità dell’Arcivescovo di Milano che, dopo lunghi, difficili contatti con il ministro delle Forze Armate di Salò Rodolfo Graziani e con lo stesso Mussolini, riuscì a salvare decine e decine di vite umane, non solo quelle dei suoi confratelli ma anche di altre vittime della ferocia dell’occupante e dei servi repubblichini.
“Monsignor Moneta – disse a guerra finita un sopravvissuto – ci accolse a braccia spalancate, a cuore aperto. Sacerdote lui e sacerdoti noi per giunta perseguitati: tanto gli bastava per aprirci le porte della sua casa. Ci siano trovati come a casa nostra, senza alcuna soggezione, non ospiti ma fratelli”.
Se da una parte Schüster si era impegnato a che i sacerdoti “confinati” non avessero più rapporti con l’esterno, pena la deportazione, i “prigionieri” continuarono a tessere le loro tele, in contatto attraverso emissari con il loro gregge. C’era chi ascoltava “radio Londra” che il governo del Duce aveva severamente vietato, chi riceveva sacerdoti amici per gestire le parrocchie forzatamente abbandonate, chi si assentava per un breve periodo per poi rientrare.
Don Franco Rimoldi, “don Carnera” per la sua mole imponente, direttore dell’Oratorio di via San Francesco d’Assisi a Varese, a Cesano Boscone ci arrivò il 3 agosto 1944 direttamente dal carcere di San Vittore dove aveva già trascorso diversi mesi. Le “colpe” del “gigante buono” erano state diverse: aver aiutato gli ebrei a fuggire in Svizzera con l’organizzazione “Oscar”; aver falsificato la documentazione fornita in bianco da Calogero Marrone, capo dell’Anagrafe di Varese e morto a Dachau; aver intrattenuto rapporti conla Resistenzaassieme a quell’altro monumento della lotta clandestina che fu don Natale Motta. A San Vittore don Rimoldi non si era defilato. Applicato all’Ufficio Matricola allo “sfilare” dei fratelli in ceppi, aveva loro sussurrato: “Anche qui c’è tanto bene da fare!”. Quando era in partenza per Mauthausen, ormai sul vagone piombato, era giunto l’ordine, mediato dal cardinale, di consegnarlo in Duomo e da lì trasferirlo a Cesano Boscone dove si era ritrovato con don Pietro Folli “un avanzo di galera” come amava definirsi, parroco di Voldomino, una vera ossessione per i fascisti, che quando avevano scoperto il suo trafficare con la organizzazione del cardinale Boetto di Genova per far passare ebrei oltre confine, il 3 dicembre del ’43 l’avevano arrestato, massacrato di botte e trasferito a San Vittore dove il provvidenziale intervento del cardinale lo aveva sottratto a una brutta fine dirottandolo a Cesano Boscone.
Dall’Ospizio Sacra Famiglia ci passò pure don Angelo Griffanti, viggiutese, docente all’Arcivescovile di Tradate. Diffusore di stampa clandestina ma soprattutto coinvolto l’8 gennaio 1944 nel passaggio in Svizzera di Edda Mussolini Ciano, moglie di Galeazzo, fucilato a Verona tre giorni dopo, con i preziosi diari del marito. Una colpa gravissima. Anche per lui, uomo di lettere e di studi, era venuta la gogna di San Vittore e non era mancata l’intercessione, andata a buon fine, dell’ieratico cardinale milanese.
Era sfuggito per miracolo all’arresto dell’UPI-GNR don Martino Alfieri, trentunenne coadiutore ad Acquate di Lecco. Temendo per lui il peggio, Schüster aveva pensato di trasferirlo a Cesano Boscone. Le sue responsabilità erano da fucilazione: aver aiutato gli ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di Mussolini l’8 settembre a passare in Svizzera; aver aggregato bande partigiane; alimentato renitenze ai bandi di Salò.
La repressione contro il “basso clero” era stata massiccia. Basta scorrere i “mattinali” della GNR, l’orecchio del regime, pubblicati nell’“Esercito di Salò” trent’anni fa da Giampaolo Pansa “prima maniera”.
Don Ernesto Castiglioni, trent’anni, bustocco, coadiutore a Treviglio. I fascisti lo avevano consegnato ai tedeschi che lo avevano infilato in un vagone merci perla Germania. Erauna “testa calda”. Collaboratore attivo della Resistenza, informatore dei partigiani, cappellano della brigata “Trevigliese”. Schüster era stato informato dal parroco don Egidio Bignamini (poi vescovo di Ancona) che buttava male. Occorreva far presto e lo si fece. Il sacerdote, “ribelle per amore”, fu salvato dentro le mura di Cesano Boscone.
La lista potrebbe continuare: don Gerolamo Magni, ventisette anni, coadiutore a Robecco sul Naviglio, reo di non aver indicato il luogo dove era stato nascosto un partigiano ferito; don Giovanni Ticozzi, quarantacinque anni, comasco, scioperante con gli operai di Lecco nel marzo del ’44 di cui un gruppo deportato; altri ancora, anime belle, coraggiose, in genere dimenticate su cui solo nel 1986 don Giovanni Barbareschi, partigiano combattente, collaboratore stretto di Schüster, dedicò un prezioso studio “in memoria”. Poi il silenzio incomprensibile.
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