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Storia

25 APRILE, IL TAMBURINO GARIBALDINO

FRANCO GIANNANTONI - 18/04/2014

“Pippo” Platinetti

Mi arriva per posta il libro agile, fresco, palpitante di fatti, alcuni temerari, di “Pippo” Platinetti, novantenne partigiano garibaldino di “Cino” Moscatelli, un vecchio amico, e capisco ancora più a fondo di quanto non avessi fatto finora, cosa fu la Resistenza quotidiana per scacciare i fascisti di Salò e i tedeschi occupanti e cosa rappresentò il 25 aprile, la Liberazione, l’insurrezione, i tumulti, l’esecuzione dei criminali ma anche, purtroppo, l’occasione per liquidare senza giustificazione alcuni conti troppo privati.

“Pippo” Platinetti aveva vent’anni l’8 settembre del ‘43 quando disertò dalla Marina, lui valsesiano, per andare in montagna. Fece tutta la lotta, dall’armistizio al 26 aprile del ‘45 quando a Veveri di Novara, meritandosi la citazione di Moscatelli e di Secchia nel loro indimenticabile libro “Il Monte Rosa è sceso a Milano” fermò da solo, spianando il mitra e rischiando la vita, un carro armato tedesco che aveva tentato di prendere il largo.

La guerra era finita da ventiquattro ore e quell’uomo, agile, piccolo di statura, coraggiosissimo, nome di battaglia “il tamburino garibaldino” e/o “Napoleone” non ci pensò due volte a mettere in gioco sé stesso quando il trionfo di Milano, con la grande parata in piazza del Duomo e per le vie del centro, lo stava attendendo.

C’è oggi ancora chi disserta sull’opportunità di celebrare questa data, di ricordare quelle ore, di ragionare su quegli anni terribile e nello stesso gioiosi. Ci sono i Pansa che decontestualizzano gli avvenimenti facendoli precipitare nei luoghi comuni per togliere loro lo spessore culturale e ideale di cui erano permeati. Ci sono i burocrati patriottardi che fanno discorsi inutili e noiosi. Ci sono scolaresche trascinate in corteo senza sapere di cosa si tratta. Spettacoli penosi. Forma, peraltro moscia, non sostanza.

Platinetti, l’omino novantenne, si è deciso dopo settant’anni, a scrivere le sue memorie perché ha sentito l’aria che tirava. E allora senza protervia, in silenzio, ha buttato giù quello che gli è rimasto in testa, schizzando nello stesso tempo i volti dei compagni più cari, tutti oggi scomparsi.

Platinetti vive solo in collina a Cugliate Fabiasco in una casetta dentro un bosco di castagni, con il ruscello che scende dalle vette circostanti alimentando il laghetto delle trote. Sullo sfondo domina le Prealpi e le Alpi. Proprio in faccia ha il San Martino, il luogo della sfortunata battaglia militare, il Cuvignone, il San Michele, più lontani il Monviso e la parete est del Rosa. Uno spettacolo. Lui quei luoghi li conosce come le sue tasche.

Figuratevi: quando il 20 ottobre 1944 un poderoso attacco nazifascista con quindicimila uomini ha messo fine alla Repubblica dell’Ossola, il solo territorio libero in una Europa sotto il tallone nazifascista, lui fra i pochissimi (il ministro Gisella Floreanini e Iso Aniasi), al posto di riparare in Svizzera, aveva detto al suo capo, un mite professore di Latino, Alessandro Monfrini: “Io di là non vado. Resto di qui, Per morire torno nella mia Valsesia”. Detto fatto. Da Varzo, al confine del Sempione, con il mitra in spalla, una borraccia d’acqua, un tozzo di pane e poco altro, aveva cominciato una “lunga marcia”, sempre in quota, fra la neve per poter raggiungere casa. Doveva evitare i blocchi nemici e doveva percorrere l’intera Val Bognanco, la Val Divedro, la Val Antrona, la Val Anzasca per poi, dal Passo della Dorchetta, toccare Rimella e Borgosesia. Ci mise quindici giorni ma l’impresa riuscì. Non fu una passeggiata. Stremato dalla fame a un certo punto era entrato in una baita da cui usciva un filo di fumo. Aveva bussato, un vecchio era attorno a un fuoco. Platinetti chiese da mangiare. “Chi sei” disse il vecchio. “Un partigiano”, rispose “Pippo”. “Per i partigiani non c’é niente”. “Pippo” fece cenno all’arma e il vecchio si ammansì. Arrostì un maialino, servì del vino e il partigiano ritrovò le forze.

In Valsesia “Napoleone” non andò in vacanza. Il partigiano della “Volante Loss”, della “Pizio Greta” e infine della “Osella” combatté in prima linea, catturò decine di fascisti e con l’aiuto di due sacerdoti, padre Giuseppe Russo e don Sisto Bighiani (quello del celebre motto “In ginocchio per pregare, in piedi per lottare”) collaborò al Comando Generale per lo scambio fra i prigionieri.

Ora che ha il libro fra le mani è più tranquillo. Sa che la sua incredibile storia resterà nel tempo. Anche il suo 25 aprile che in realtà giunse il26 inuna Novara in festa. Appoggiata al muro del Teatro Coccia aveva notato, fra tante altre, una bella ragazza in divisa partigiana. Era Andreina Cecchini, una valorosa staffetta con sulle mostrine la “stella alpina”. Le si presentò e, dopo la sfilata di Milano e un salto a piazzale Loreto, tornò a casa in sella ad una “Wolsit” per fare più in fretta e la sposò. “Fu la mia medaglia, la più bella, la più scintillante io che di medaglie al valore non ne ho mai avute”.

Andreina è morta da qualche anno ma “il tamburino garibaldino” (nomignolo datogli da Moscatelli) l’ha sempre viva nel cuore. A lei dedica col pensiero ogni anno il 25 aprile seppur le ombre che attanagliano il Paese e quella storia che ci diede, comunque, la libertà, gli rendano le rughe sul volto ancora più profonde.

 

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