Un’avvertenza, caro cittadino che ti batti per le sorti della tua Varese, protesti in nome del bene collettivo, chiedi ascolto e comprensione alla municipalità, auspichi una fermata se non un ripensamento: guarda che indignarsi è un’illusione. Sua altezza il potere ha, per naturale timbro genetico, la vista bassa: non scorge (come vorrebbe scorgere: senz’altro lo vorrebbe) l’agitarsi popolare, gli è impedito di vedere lungo, ed è quest’impositiva condanna a negargli l’accortezza sollecitata. Lamentare indifferenza, silenzio, esclusione è un peccato di realismo, te ne devi convincere, generoso varesino. E poi, rifletti: l’assemblearismo non rientra fra i compiti di un’istituzione rappresentativa. Dove sta scritto, quale magna charta lo prevede, in che antologia delle regole del Bravo Principe è mai stato rubricato?
Da tempo la tua fervente bosinità insiste sul parcheggio-bunker alla Prima Cappella: lì e in quel modo non va, altrove e in maniera diversa potrebbe. Vuoi discuterne? Beh, non esagerare. Quale titolo accredita l’elettore a proporre idee alternative, e pretenderne un ragionato esame, e ricevere dignità pari a quella d’un eletto?
Un po’ d’humilitas, che diamine. Di senso della misura. E specialmente di riguardo verso l’altrui personalità. Ciascuno ha il suo stile, la sua coscienza, il suo corredo etico. Bisogna prenderne atto e non volgere la circostanza in dramma. Per esempio: un paio di settimane fa tramite RMFonline è stata mandata una lettera aperta al soprintendente regionale ai Beni culturali. L’illustre carica non ha risposto, e dobbiamo inchinarci di fronte alla sua scelta d’ignorarti, amico lettore che ci segui con passione. Fàttene una ragione. E fàttela anche qualora nessuno replicasse alle domande che qui sopra vengono poste da Daniele Zanzi per conto del comitato #Varese 2.0: quesiti -lo ammetterai- provocatoriamente concreti, studiatamente specifici, tenacemente collaborativi.
Il passato insegna: spesso non c’è tarlo che corroda la quieta ragione di quanti stanno al comando. Guai a pensare, come si racconta nella “Storia della colonna infame”, che è men male agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore. Quale errore? Quale dubbio? Quale agitarsi? Certezze, solo certezze, assolutissimamente certezze. L’autorità, fiera del suo rango elevato (e quasi sacro, come fu per saecula saeculorum) dà retta, senza conoscerlo, ad Anatole France: “E’ questo che piace alla moltitudine: essa non cerca prove ma asserzioni. Le prove la inquietano e la mettono a disagio. La folla è semplice e comprende solo le cose semplici, non bisogna spiegarle né il come né il perché, ma dichiarare solo il sì e il no”.
La moltitudine. La folla. I governanti pensano in buona (buonissima) fede di poterla guidare sempre, e la sorpresa è ai loro occhi stupefacente e irricevibile quando capita che siano i governati a volerli guidare. Di fronte all’inspiegabile evento, i governanti commettono in genere un peccato non di superbia, ma solo di distrazione storica verso i governati. Non ricordano, come sarebbero tenuti a ricordare, quel che Pietro disse ai cristiani: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in voi”.
Delegando a qualcuno il compito d’amministrare per il vantaggio di tutti, gli affidiamo una grande speranza. Vederla spegnersi, ridotta a una piccola cenere, merita d’essere motivo di smaliziato stupore più che di offeso risentimento: convienine con noi, caro cittadino che ti batti per le sorti della tua Varese. Riconosci la legittimità, e stavolta addirittura il primato, dell’Assenza, e se proprio ti resta la voglia d’un sospiro non di sollievo, limitati a parafrasare l’invocazione nell’orto del Getsemani: Signori, dove siete?
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