Nell’agosto 1907 Umberto Boccioni, già avviato sulla strada che l’avrebbe portato a dar vita al Futurismo, giunse a Milano, e visitò la Pinacoteca di Brera. Di quella visita restano quattro righe sul primo dei taccuini futuristi, tutte dedicate all’unico quadro che l’aveva colpito. “È la perfezione stessa. C’è tutto. È terribile!” annotò, travolto dall’emozione suscitata dalla Pietà di Bellini.
Quell’immagine semplice e potente del Cristo morto, sostenuto sull’orlo del sepolcro dalla Vergine straziata e da un Giovanni Evangelista così angosciato da distogliere lo sguardo dal volto del Salvatore, ha da sempre coinvolto i visitatori di Brera. È giusto quindi che il museo gli abbia finalmente dedicato una mostra, anche per celebrare degnamente la fine del suo restauro
È stato un intervento esemplare durato due anni, e svoltosi nel laboratorio trasparente allestito all’interno delle sale, da cui sono già passate opere famose come lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. I restauratori del laboratorio interno di Brera, sotto la direzione di Mariolina Olivari, hanno condotto analisi approfondite, i cui risultati dettagliati saranno riportati nel catalogo di prossima pubblicazione. Sono emerse così la qualità altissima del disegno preparatorio di Bellini, e la ricchezza dei materiali usati, tra cui spicca il lapislazzuli per il cielo e per il manto di Giovanni. Il restauro ha posto rimedio alla deformazione delle due tavole di legno su cui l’opera è dipinta e le ha restituito piena leggibilità.
Ora la Pietà ci appare in tutta la sua forza emotiva. È davvero un’opera terribile che non nasconde nulla della realtà dolorosa della Passione, così terribile che il restauratore ottocentesco Giuseppe Molteni aveva cercato di ritoccare alcuni dettagli per renderla più sentimentale. Ma Bellini non è affatto sentimentale, è pienamente e totalmente realista nel farci vedere le spine acuminate intorno al capo di Cristo o la mano ferita dalle vene gonfie appoggiata sul parapetto. Nello stesso tempo sa descrivere con infinita dolcezza la bellezza che il volto di Cristo conserva anche nella morte, la tenerezza dei gesti di Maria, la luminosità del cielo che già allude alla Resurrezione.
Un quadro del genere, anche grazie alle dimensioni ridotte, è fatto per la devozione personale, per essere di supporto ad una meditazione non superficiale, che coinvolga lo spettatore nel profondo. “Questi occhi gonfi quasi emetteranno gemiti, quest’opera di Giovanni Bellini potrà spargere lacrime” recita il cartiglio dipinto sul parapetto, parafrasando il poeta latino Properzio.
Il committente di questa tavola, di cui più non conosciamo il nome, faceva parte del mondo umanistico impregnato di spirito cristiano e di cultura classica, che caratterizzò Venezia alla fine del Quattrocento, lontano dai ritmi e dai modi di vita di oggi, che la mostra illumina attraverso una rassegna di ventisei opere, provenienti da musei italiani e stranieri. Realizzata grazie al contributo della Fondazione Cariplo, comprende altre opere dello stesso Bellini, e poi dipinti e disegni degli artisti che operavano negli stessi anni, a cominciare da suo cognato Andrea Mantegna. Apre il percorso il ritratto belliniano di Lorenzo Giustiniani, il santo vescovo di Venezia che predicava la conversione personale attraverso la meditazione e la preghiera. Lo chiude un’altra tavola di Giovanni Bellini, che mostra il Bambino addormentato sulle ginocchia di Maria, unendo in una sola immagine il tema della nascita e della morte redentrice di Cristo. In mezzo capolavori assoluti, come la cimasa della Pala Pesaro giunta dai Musei Vaticani.
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