Ai cittadini che si danno la briga di riunirsi, discutere, proporre bisogna dar retta. Ascoltarli, intuirne la passione positiva, cogliere il beneficio collettivo che può venire dal loro apporto alle sorti municipali. Questo sono chiamate a fare le autorità civiche verso il comitato Varese 2.0, nato per opporsi al parcheggio della Prima Cappella e ad altro di non condivisibile che accade in città. Altrimenti daranno ragione all’accusa che gli viene mossa, cioè d’amministrare in solitudine, con spirito d’indifferenza verso ogni contestazione e suggerimento, sicuri solo delle proprie certezze senza mai coltivare il dubbio. Almeno il dubbio. Se si sviluppa un movimento popolare di obiezione, ci sarà pure qualche ragionevole motivo che lo ispira: oppure no? O c’è chi si diverte a criticare per il gusto di farlo, e a essere giocosamente prevenuto, e a buttare via il tempo non avendo altro da fare?
Si è sottolineato, nella riunione costitutiva avvenuta alla galleria Ghiggini, che l’idea di cambiare parere non ha mai sfiorato gl’inquilini di Palazzo Estense. Né per la Prima Cappella né per altro (ex caserma Garibaldi, parco di Villa Augusta, ospedale Del Ponte, castello di Belforte eccetera). E neppure li ha convinti l’opportunità di prestare pragmatica attenzione a progetti alternativi, ricercandovi qualcosa di utile, che pure esisterà visto il tanto insistere di autorevoli voci. E’ quest’insensibilità a far sentire molti varesini forestieri a casa loro, confinati nell’esilio culturale, esclusi dal partecipare al bene della città.
Il comitato s’ispira a un desiderio semplice: rendere Varese migliore. L’atteggiamento è pro, invece che contro. Di segno ottimistico, nonostante tiri aria di pessimismo. A favore della collaborazione civica, che incontra un cronico rifiuto; dell’uso saggio delle obiezioni, e più ce ne sono meglio è; d’una conduzione della cosa pubblica che tenga caro l’apporto dei privati. Insomma, si fa portatore d’aperture nonostante gli usci chiusi delle sale istituzionali.
Perché rifiutare il dialogo, se tali sono le premesse? Forse, potrebbe essere la risposta, a causa d’un riflesso condizionato, un timore psicopolitico, un retropensiero comprensibile quando si governa: il sospetto che la vis polemica nasconda il tignoso pregiudizio, l’avversione preconcetta, la partigianeria ideologica o di convenienza.
Se questo è il problema, nel caso specifico non ha motivo d’esistere. Il neonato movimento popolare non gode di sponsorizzazioni partitiche, né difende interessi economico-sociali: s’è formato per avventura e non secondando chissà quale occhiuta strategia. Sullo spontaneismo dell’iniziativa dovrebbero ponderare sindaco, assessori, consiglieri comunali. E quanti hanno responsabilità extramunicipali influenti sul nostro territorio: dire sempre di no a tutto e a tutti, gratificando del sì solo le proprie certezze, pare il modo d’allargare il solco tra votati e votanti, di alimentare l’insofferenza verso la classe dirigente, di favorire derive che nuocciono alla convivenza democratica, consolidando processi disgregativi di origine lontana ed epocale.
Sarebbe uno sbaglio sottovalutare il significato, e per meglio dire il valore, del comitato Varese 2.0 il cui nome palesa l’intento di cambiare metodo, prospettiva e perfino stagione storica: basta con la fase 1.0, appartenente a un passato prodigo d’immobilismi, sciatterie e incomprensioni; e avanti con quella nuova, che non si prefigge alcunché di rivoluzionario se non di rifondare il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
La fiducia, forse ingenua all’alba tormentata del terzo millennio, è in un rinascimento locale ritenuto praticabile se si rimuovono ubbìe, risentimenti, prevenzioni concertando un patto d’impegno civile perla Varesedel prossimo futuro. Si offre un’occasione per riconciliarsi, non una circostanza per confliggere: chissà se la differenza tra le due opportunità sarà capita, scegliendo dove condurre Varese -chi con chi altro, e a fare che cosa- negli anni a venire.
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