Un incidente di percorso, non gravissimo per fortuna, occorsomi qualche settimana fa, mi ha costretto – consentitemi il racconto personale in diretta – al ricovero, per circa una settimana, nel reparto di cardiologia dell’Ospedale di Circolo di Varese. Si è trattato di uno di quegli eventi non molto graditi, una sorta di campanello di allarme che in un’età non ancora veneranda ma di certo attempata aprono spiragli a nuove riflessioni e a prospettive, si spera di molto alla lontana, un po’ grigie se non proprio perniciose.
La permanenza nel reparto ospedaliero – per la precisione nel reparto di Cardiologia 1 – mi ha permesso, intanto, una valutazione dell’assistenza sanitaria offerta nel nostro ospedale e nella nostra città, che commisurata sulla propria pelle va bene al di là delle talvolta distratte letture e di considerazioni di terzi, insomma una specie di inchiesta sul campo. V’è subito da dire che il personale medico e paramedico della Cardiologia 1 – ma altrettanto mi hanno assicurato amici che sono stati ospiti della Cardiologia 2 – è molto qualificato e s’impegna oltre misura. Bravi i medici e bravissimi gli infermieri (pochi) e le infermiere (la quasi totalità). Sono persone che svolgono il loro lavoro con grande professionalità, con vera passione e, molto spesso, con il sorriso sulle labbra. Il paziente non è tale, ma un collaboratore suo malgrado e, alla fine, un amico.
Il reparto è diretto da un personaggio straordinario, il professor Jorge A. Salerno-Uriarte, un medico italo – paraguaiano di assoluta competenza, discreto e disponibile. Laureatosi giovanissimo a Pavia, ausculta cuori e battiti dall’età di ventitré anni, tanto da essere divenuto, quasi mezzo secolo dopo, un’autorità nazionale e internazionale nel campo delle aritmie. Si potrebbe definire, se oggi non apparisse erroneamente come limite, un medico vecchia maniera, nel senso che sa fare diagnosi e redigere pareri solo sulla base dello studio e dell’esperienza; diagnosi e pareri sempre confortati dagli esami ormai necessari e dalla tecnica in continua evoluzione.
Il giudizio sulla struttura ospitante – il famoso monoblocco ospedaliero la cui costruzione fu portata a compimento una decina di anni fa – mi fa venire alla mente alcune battute di Piero Chiara, il quale diceva che per stabilire il grado di civiltà di un paese occorre visitarne prima i cimiteri; oppure quelle di un colonnello che sosteneva come fossero eloquenti, girando in un paese straniero, le condizioni di vita dei militari e delle loro divise; infine le constatazioni di un vecchio insegnante di filosofia del liceo che dinanzi alle assemblee d’istituto – un vera novità negli anni Sessanta – sosteneva come i protagonisti cominciassero dalle elucubrazioni sui massimi sistemi per finire a parlare quasi sempre dei cessi.
Ebbene, arrivando così a questi ultimi, si deve convenire che il loro stato, nel nuovo monoblocco ospedaliero, non eccelle in efficienza: le tazze sono posizionate a un’altezza tale che un uomo di statura media (diciamo un metro e settantacinque?) a fatica riesce ad appoggiare i piedi per terra, soddisfacendo a una funzione che soprattutto in un ospedale è più necessaria che utile. I locali non sono areati ed è proibito chiudersi dentro alla ricerca di privacy perché – s’è scoperto – il personale non ha a disposizione una chiave passe-partout e non si sa mai che cosa vi può accadere. I letti non sono comodissimi, i lenzuoli sono fatti con un cotone di bassa qualità e i materassi di lattice, se ottimi per l’igiene, lo sono meno per la traspirazione dei degenti, che di notte si svegliano a bagnomaria e con il rischio di contrarre nuovi malanni, oltre a quelli per cui si è già in cura.
Ma per quanto – nonostante queste ultime e banali considerazioni – il voto all’assistenza sanitaria varesina fornita risulti nel complesso molto alto, la conclusione è che non esiste, né esisterà mai, un ambiente concentrazionario (caserme, scuole, collegi, alberghi, ospedali… prigioni) migliore di casa nostra. L’obbligatorietà a un’esistenza forzosa, ancorché temporanea, fa sempre riscoprire il piacere delle piccole abitudini – le piccole cose gozzaniane di pessimo gusto? –, di cui nella quotidianità non ci accorgiamo ma che vengono rintracciate appena le perdiamo, e ne sentiamo terribilmente la mancanza: sedersi in poltrona con un buon libro tra le mani e un bicchierotto vicino, trasportare i ceppi dalla cantina al caminetto, addormentarsi davanti alla tv, a Bruno Vespa e alla sua trasmissione serale Porta a Porta.
Ed è immediato allora il ricordo dei versi di una vecchia canzone in vernacolo meneghino, “Nustalgia de Milan”, ancora una volta a dimostrazione che le belle canzoni, anche le canzonette, quanto meno valgono come un buon film, un bel dipinto o un ottimo libro; una canzone che negli anni della seconda guerra mondiale il maestro D’Anzi e il paroliere Bracchi avevano tagliato su misura per le migliaia di soldati lombardi sperduti oltremare, assecondando le loro malinconie: “…Vedé la Madunina, / sentì el mè bel dialett, / svegliass öna matina / in del me lett…”.
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