L’Italia è una società divisa da molteplici fratture le cui radici sono da ricercarsi nelle differenze territoriali, nelle modalità dello sviluppo economico, nella natura dei sistemi politici che si sono succeduti, nelle dinamiche dei rapporti sociali, nelle caratteristiche dello spirito morale e civile degli italiani.
Per capire come “la volontà di vivere insieme e il senso di un comune destino”, che lo scrittore Ernest Renan aveva indicato come il nucleo dell’unità nazionale, si siano logorati e appaiano oggi più fragili, occorre volgere lo sguardo all’insieme della nostra storia nazionale.
L’unificazione italiana fu essenzialmente una estensione del modello piemontese, che si ispirava al centralismo francese, ed è stata attuata applicando senza adattamenti l’ordinamento subalpino a regioni profondamente differenti.
Cavour, uno degli artefici del Risorgimento, pensava ad un Regno dell’Alta Italia, poi accolse l’unificazione della penisola in seguito all’esito straordinario e del tutto insperato della conquista del Mezzogiorno da parte di Garibaldi.
Ben presto la classe politica dirigente nazionale si rese conto della debolezza del regime liberale e del suo precario consenso e fu presa dal timore che il nuovo Stato potesse dissolversi.
Anche Gaetano Salvemini, acceso federalista, convenne sin dal 1925 che senza l’imposizione centralistica il nuovo Stato non sarebbe riuscito a mantenere l’unità, dando in sostanza ragione al Parlamento italiano che, nel 1861, aveva respinto il progetto di decentramento amministrativo proposto da Minghetti, un liberale della Destra storica.
La classe dirigente del Nord non aveva alcuna idea di quali fossero la realtà economica e sociale del Mezzogiorno. Le inchieste condotte dai “meridionalisti” (Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato) rivelarono l’esistenza di una “questione meridionale” di enorme portata e gravità. Invece di un Sud che, una volta liberato dal malgoverno borbonico, poteva diventare il “giardino d’Italia” grazie ad una agricoltura ricca e fiorente, apparve la realtà di un territorio che anziché “Italia” era piuttosto “Affica”. Il Sud era prigioniero di una secolare arretratezza economica e sociale, causa di una diffusa povertà e di una cronica mancanza di occupazione.
Le masse erano ostili sia alla classe dirigente locale sia al governo “piemontese” che aveva introdotto la leva militare e una più severa tassazione e aveva deluso le aspettative popolari per la riforma agraria promessa dai garibaldini.
Nel primo decennio di vita dello Stato unitario vi fu la rivolta dei “briganti”, con episodi di estrema crudeltà, che fu la drammatica espressione della delusione subita dai contadini che speravano nella distribuzione delle terre del latifondo.
Tale frattura non si è più ricomposta, anzi la repressione del brigantaggio ha lasciato una eredità avvelenata: un “humus” propizio alla penetrazione nella società delle organizzazioni criminali. Fin dall’inizio si stabilì un rapporto malsano: i contadini meridionali conoscevano lo Stato unicamente quando esso si presentava loro nelle vesti del carabiniere e dell’esattore delle tasse.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi due del Novecento nacque la protesta di insigni intellettuali meridionali (Nitti, Salvemini, Sturzo, Gramsci, Dorso) contro la classe dirigente settentrionale accusata di favorire il saccheggio delle risorse del Sud a vantaggio del Nord, mettendo sotto accusa la “perversa alleanza” tra l’altra borghesia settentrionale e i latifondisti meridionali, favorita dalla legislazione protezionista.
Nell’età giolittiana ebbe luogo il grande decollo dell’industria settentrionale mentre il Sud rimase area depressa nonostante alcuni interventi statali, come la costruzione dell’acquedotto pugliese.
Nel 1939 Mussolini dichiarò che la questione meridionale non esisteva più ma si trattava di una millanteria perché la situazione del Mezzogiorno si era aggravata per il venire meno dell’emigrazione che aveva avuto dimensioni imponenti nell’epoca giolittiana.
Tra il 1943 e il 1945 l’Italia, in conseguenza delle vicende del secondo conflitto mondiale, venne tagliata in due con un Nord investito da un’ondata di rinnovamento civile prodotta dalla Resistenza e il “Regno del Sud” che rappresentò la continuità dello Stato in chiave conservatrice e l’occupazione anglo-americana che fu accompagna dalla rinascita delle mafie, protagoniste dei traffici legati al mercato nero. Nel periodo 1944-1947 il Sud rilancia la sua protesta attraverso il movimento separatista siciliano che provocò la mobilitazione dei militari in funzione repressiva.
Solo con l’affermazione delle forze democratiche nel 1948 si ebbe una risposta di grande respiro; sotto l’influsso esercitato sul partito cattolico dal pensiero meridionalista di Sturzo il giovane Stato repubblicano mise al centro della propria politica la modernizzazione del Mezzogiorno nella convinzione che si trattava dell’ultima, grande occasione storica per ricomporre la più grave frattura che divide l’Italia.
Utilizzando i fondi stanziati dall’America si diede avvio ad un imponente sforzo con la confisca dietro indennizzo dei latifondi e delle terre incolte e fu costituita la Cassa per il Mezzogiorno per la creazione di infrastrutture e centri industriali. La Cassa riuscì a formare una schiera di specialisti di grande valore che avrebbero potuto cambiare radicalmente la situazione, ma fu commesso l’errore di non concedere una larga autonomia ai tecnici, sottoponendo invece il nuovo organismo alle direttive del governo e dei partiti politici. Nonostante l’imponente spesa che si protrasse nel tempo il risultato fu complessivamente un insuccesso.
Con il riversamento dei grandi capitali proveniente dalle finanze statali si ebbe una mutazione qualitativa del blocco di potere economico e politico.
Mentre tra anni gli Cinquanta e Sessanta la migrazione delle masse popolari meridionali verso il Nord in pieno boom economico spostava milioni di cittadini, nel Sud i rapporti tra economia e politica clientelare aprirono il varco alle organizzazioni criminali, avviando un processo di inquinamento dello spirito pubblico, del clima civile e dei rapporti sociali.
L’unico e ultimo grande piano di sviluppo entrò velocemente in un tunnel cieco da cui non sarebbe più uscito. I partiti di governo e le loro correnti stabilirono con le organizzazioni criminali una rete di clientele che sono profondamente penetrate nel tessuto sociale e che tuttora si diffondono in tutto il Paese, anche al Nord.
L’anti-Stato criminale, che si avvale dell’economia sommersa sottratta alla fiscalità, ha coperto il Sud con un grande cono d’ombra. Per oltre un secolo la protesta meridionale si era alimentata della tesi che il Nord aveva sfruttato il Sud; a cavallo tra il XX e il XXI secolo quella tesi è stata letteralmente capovolta. All’immagine di un Mezzogiorno colonizzato militarmente e politicamente dal Piemonte e poi sfruttato economicamente dal capitalismo settentrionale, venne opposta la tesi di un Mezzogiorno assistito dal Nord che ha bloccato lo sviluppo dell’intero Paese.
La protesta settentrionale venne abilmente sfruttata dalla Lega che ha denunciato come negativo il patto di unità nazionale e ha teorizzato la radicale diversità sociale ed etnica della Padania dal resto dell’Italia e il suo diritto alla secessione. Un nuovo possente cuneo si è così inserito nel corpo unitario dell’Italia mettendo a rischio la sua capacità di coesione e la sua fragile unità. Ma in questo modo non si è ricomposta la più grave frattura del Paese e si è prodotta una profonda lacerazione che non aiuta l’Italia a farsi strada in un mondo globalizzato e interconnesso.
La domanda che la Lega pone al Paese è: perché l’unità d’Italia? È una domanda che ne suscita un’altra: cosa sarebbe stata e cosa sarebbe l’Italia senza unità?
Per costruire il futuro gli italiani non possono prescindere dalla loro storia nazionale unitaria che è l’unica che hanno e l’unica da cui ripartire.
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