Adesso che ci svuotano la Provincia, beh, qualche rimpianto glielo dobbiamo, a questo ente che fortemente volemmo. Pareva ai nostri bisnonni e ai nostri nonni qualcosa d’eccezionalmente appagante: segno d’autorevolezza, e noblesse, e partecipazione alta alle cose del mondo. Un attestato ben oltre che formale: sostanzialissimo. Varese capoluogo d’un vasto territorio: ma che onore. E poi, un onore dovuto: ci spettava, la gratificante qualifica, visto che già in illo tempore avevamo goduto di guarentigie feudali. Sicché gli avi si schierarono uniti, risoluti, infiammati da sacro entusiasmo nell’impresa oggi finita in cenere, ai piedi d’un discutibile altare dedicato a risparmi statali meno che esigui.
Vale la pena di ripescare qualche fermo-immagine d’una vicenda d’orgoglio storico, pur se il suo epilogo non trovò concordi i beneficiari: i varesini della città lo giudicarono la legittimazione d’un ruolo di preminenza che gli pareva evidente, e i non varesini lo subirono come un’imposizione autoritaria, obiettando che una Provincia con quei confini non rappresentasse il simbolo istituzionale della comune appartenenza.
E tuttavia il comitato promotore la spuntò con tenaci argomenti. Almanaccò che fin da tre secoli prima era stato riconosciuto il diritto bosino a un ruolo di primazìa nella zona e di governo della medesima. Alla vigilia della Rivoluzione francese, anno 1786, Maria Teresa d’Austria nel ridisegnare la mappa dell’area lombarda aveva indicato Varese a capo d’un ambito che comprendeva anche il mandamento di Appiano e il circondario di Gallarate. Scelta poi perpetuata dalla Repubblica Cisalpina, pur se nel 1802 Varese fu declassata (così almeno venne preso il verdetto) a viceprefettura del Dipartimento del Lario, presieduto da Como.
Lo sfregio non venne mai accettato. Tanto che il 17 agosto 1859, rendendo visita a Vittorio Emanuele II ospitato a Villa Taccioli dopo la liquidazione degli austriaci, i maggiorenti locali ritennero di privilegiare il radicatissimo desiderio. Annotò lo storico Luigi Brambilla: “Il Re distribuì alcune onorificenze, visitò la basilica e l’ospedale e alle due pomeridiane partì per Laveno. Gli furono presentati due indirizzi, uno del Preposto, a nome del clero, e una supplica dal Podestà con cui chiedevasi che Varese venisse fatta capoluogo di Provincia”.
Il sovrano prese atto della richiesta, poi se la dimenticò. Ma l’idea resistette all’usura del tempo, all’indifferenza, alla delusione. Passarono decenni prima che capitasse l’occasione giusta, che infine si presentò. Accadde durante una visita di Mussolini, diventato da qualche mese presidente del Consiglio a Milano, nel 1923. I provincialisti varesini (Giovanni Bagaini direttore della Cronaca Prealpina, e poi Giulio Moroni, Angelo Mantegazza, Domenico Castelletti, Antonio Lanzavecchia, Eugenio Maroni Biroldi, altri ancora) riuscirono a sottoporgli un memoriale in cui si illustravano le buone ragioni a sostegno della loro rivendicazione. Ragioni antiche e contemporanee, politiche, sociali, finanziarie, topografiche. Il sottoprefetto Capialdi, incaricato d’esaminare il documento, convenne sulla loro fondatezza, chiudendo così la relazione: “La zona designata come Varesotto ha vita economica propria, con un centro di scambi intercomunale che è il capoluogo Varese. La richiesta avanzata non è azzardata né pretenziosa”.
Il Duce apprezzò le motivazioni e, nonostante la fronda dei bustesi (e d’una parte dei gallaratesi) che preferivano stare con Milano, decise per il sì. Lo comunicò alla città con un telegramma, il 6 dicembre del ’26: su mia proposta – informò – il Consiglio dei Ministri ha elevato Varese alla dignità di capoluogo di provincia, nella certezza che la sua popolazione si mostrerà sempre più meritevole del riconoscimento.
Suonarono a lungo la Martinella del Broletto e le campane di San Vittore, e vi seguì una fragorosa manifestazione di gioia collettiva, replicata il 2 gennaio ’27, data della firma del decreto ufficiale istitutivo. Furono settimane di fierezza popolare, di spirito identitario, di sogni realizzati che ora entrano nel mesto archivio delle dimenticanze epocali: perduti per sempre, e forse tra l’indifferenza dei più, ai quali non importa d’essere dei vinti.
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