Quest’anno ricorre il centenario della Prima guerra mondiale. Una data epocale che ha segnato la storia di interi popoli, a partire da quello italiano. I documenti storiografici e la memoria collettiva, trasmessa da racconti, lettere e canzoni dal fronte, sono patrimonio di intere generazioni e continuano ad esserlo, tra i più giovani, grazie alla scelta umana, culturale e patriottica del non dimenticare.
Non possiamo ripensare ai nostri nonni senza immaginarli in difesa nelle trincee o mandati all’assalto contro il rischio dei cecchini per continuare a costruire una patria. La nostra. Non possiamo ascoltare le canzoni degli Alpini senza ritrovare, in ciascuna di quelle semplici parole, il sussurro di sofferti pensieri carichi di nostalgia per la casa lontana o di attanagliante paura per il domani insicuro e la morte così vicina. Non possiamo leggere le scarnite, evocative parole dei versi di Ungaretti senza sentirci penetrare nel cuore la lama tagliente della fragile vita di uomini che la guerra, atroce, ha reso nel dolore fratelli: “Di che reggimento siete fratelli? / Parola tremante/ nella notte/ Foglia appena nata / Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ dell’uomo presente alla sua/ fragilità/ Fratelli”.
Là, nel Triveneto, la terra cento anni fa si è colorata di sangue e migliaia di giovani, figli, mariti, padri non hanno più fatto ritorno. I nomi geografici sono scanditi dal ritmo di una rievocazione che appartiene a ciascuno: il mormorio del Piave, calmo e placido al passaggio dei fanti, le battaglie dell’Ortigara e sull’altopiano di Asiago e ancora la disfatta di Caporetto e l’Isonzo. Luoghi dove ogni famiglia, delle diverse regioni italiane dal nord al meridione, ha lasciato un pezzo di cuore, di affetti, di vita.
Proprio quest’anno, mentre nelle nostre scuole, nelle nostre città, si rivive il senso collettivo di quel tempo mai troppo lontano, in Veneto con un referendum – in parte on line, in parte con firme raccolte ai gazebo, in parte con interviste telefoniche – circa due milioni di cittadini, secondo le stime degli organizzatori, chiedono l’indipendenza da Roma (quasi trecentomila i voti contrari) e un distacco dall’Italia. I media intanto ci rimandano l’eco di una folla vociante, radunata in piazza dei Signori a Treviso, mentre inneggia a una nuova “libertà” e sventola le bandiere di San Marco. Già perché oltre cinquant’anni prima della guerra, il 22 marzo del 1848, in pieno Risorgimento, proprio lì nasceva una repubblica, frutto del desiderio di liberazione dall’oppressione austriaca. E poco dopo, dalla battaglia risorgimentale, nasceva l’Italia.
La nostra patria in terra veneta ha però radici profonde, forse più che altrove, perché in quella parte d’Italia si è consumato l’atto drammatico del primo grande conflitto, lì sono arrivati giungendo da ogni parte della penisola, i nostri soldati, lì hanno lasciato le speranze di futuro i “ragazzi del ‘99”, coetanei di tutti quei giovani che oggi siedono dietro i banchi della seconda superiore e ai quali si continua tenacemente a raccontare il senso del nostro essere popolo unitario, nelle speranze e nelle tragiche sofferenze comuni.
Così, nella piazza trevigiana, mentre la storia viene rimescolata senza troppo pudore e tra le esternazioni di secessionismo pseudopatriottico si leva persino l’auspicio che “ci vorrebbe un Putin anche da noi”, delle migliaia e migliaia di morti di un secolo fa, delle mutilazioni raccapriccianti, delle donne che, sopportando enormi fatiche, presero il posto dei loro uomini nel lavoro dei campi e nelle fabbriche, dei bambini costretti a patire fame e miseria, di quella umanità straziata nessuno dei festeggianti pare ricordarsi. Perdendo la consapevolezza che proprio le terre venete sono state chiamate dalla storia ad essere non luoghi di pochi ma patria di tutti. E che all’Italia le lega indissolubilmente il destino comune che nessuno può riscrivere in modo differente da quello che è stato.
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