Solo lo scorso mese di ottobre Regione Lombardia aveva aderito ad un Protocollo finalizzato a promuovere strategie di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne. Perché si diffonda una sempre maggiore cultura del rispetto e dell’uguaglianza. E la legge regionale numero 12 ha stanziato un milione di euro per combattere, anche a livello culturale, la violenza di genere, che registra nei nostri territori dati tragici e inaccettabili. “Con questi finanziamenti – aveva decisamente sostenuto l’assessore alle pari opportunità Paola Bulbarelli – possiamo dare concretamente una mano a tutte quelle donne che chiedono risposte vere, concrete. In Regione Lombardia, in base alle disposizioni dell’ Unione europea, dovrebbe esserci un centro antiviolenza ogni 50.000 abitanti, noi ne abbiamo solo 16. Con questi fondi potremo aprirne altri per dare ascolto e voce alle donne”.
Ora la commissione Affari istituzionali della Regione Lombardia ha approvato a maggioranza una consultazione popolare perché venga parzialmente abrogata – che significa parzialmente ripristinata – la legge Merlin, che nel 1958 aveva sancito la chiusura delle case di tolleranza nel nostro Paese.
La proposta, avanzata da Lega, Lista Maroni, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Partito dei Pensionati, ha avuto l’appoggio del Movimento Cinque Stelle, il cui voto è stato determinante. Contrariamente si sono espressi i consiglieri di Partito Democratico, Patto civico e Nuovo centrodestra.
Le motivazioni a favore della proposta, confortate peraltro dall’assenso di voto di tutte le quattro donne (due della Lega, una dei Pensionati, una dei Cinque stelle) presenti in Commissione, si appigliano alla pleonastica ridondanza del volere regolamentare quanto è irregolarmente presente nella società, togliendo l’affare dalle mani della malavita e persino garantendo tutela sanitaria. Sintetizzando, meglio togliere le donne dalle strade e riportarle in abitazioni private, che il leghista Salvini non ha comunque esitato a ridefinire “bordelli”.
Impossibile non vedere un aperto contrasto, da parte della medesima istituzione, tra la scelta di promuovere una cultura della dignità della donna e solo pochi mesi dopo esplicitare la volontà di legalizzare la mercificazione del corpo femminile.
Da un lato infatti la proposta di riapertura delle “case chiuse” consegna all’opinione pubblica, in nome di una presunta “pulizia sociale”, la normalità dello sfruttamento a condizioni igieniche garantite e in situazioni ambientali più confortevoli della strada. Dall’altro vi aggiunge il retropensiero di sostituire alla criminalità il comune cittadino maschio, cui verrebbe consentito di tornare a rifrequentare luoghi deputati al pagamento di prestazioni sessuali.
Se il mercato dello sfruttamento, fino alle forme tragicamente ben note della schiavizzazione di giovani donne, esiste è perché esiste a sua volta chi lo alimenta. In caso contrario non rappresenterebbe una forma di guadagno così alta da determinarne una gestione da parte della malavita. Non ci sarebbero le bambine dei paesi poveri del mondo in balìa di un mercato disumano, non ci sarebbero giovani che scappano da realtà di miseria e vengono intrappolate nelle vergognose forme di segregazione che conosciamo. Non ci sarebbero morti e violenze ad ogni ribellione.
In tanti ricordiamo l’accorato appello di suor Eugenia Bonetti che il 13 ottobre di tre anni fa, in occasione della prima edizione di “Se non ora quando”, dal palco di Piazza del Popolo a Roma raccontò la tragica condizione di tante e tante donne, vittime del nuovo schiavismo del Terzo Millennio.
Il problema sociale esiste ed è immenso. La ricerca di soluzione deve però passare per strade di progressivo reinserimento, di recupero, di vicinanza, di attenzione e cura, non certo arrivando a dare forma organizzativa alla prostituzione. Che rappresenta la modalità culturale peggiore di interpretare la femminilità.
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