Mi ripeto a costo di annoiare. La Resistenza fu evento complesso. Lo dico misurando i ferri con i nostalgici della retorica patriottarda che suonano il piffero ottenebrando la verità. La Resistenza è stata lotta durissima per un grande ideale. Fu attraversata da eroismi, errori, cedimenti, delazioni, viltà, coraggio. Fu storia di uomini e di donne, di ogni censo, età, cultura, religione. Cominciò negli anni ‘20 quando le squadracce e le polizie di Mussolini diedero la caccia spietata ai dissidenti. Finì con la Liberazione.
Dico questo perché lascia sempre più stupefatti che un ottimo giornalista come Giampaolo Pansa, autore in anni passati di opere eccellenti, dalla “Resistenza fra Genova e il Po” stampato da Einaudi e Laterza o “L’esercito di Salò” coi Fondi dell’Archivio Micheletti di Brescia (i notiziari della Gnr), vincitore del “Premio Einaudi” con tanto di lauro consegnato a Dogliani, il feudo dell’ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, oggi ci presenti, al solito senza uno straccio di nota, il suo ennesimo sfregio alla Resistenza con “Bella Ciao”, una galleria di truci vicende dove violenza e crudeltà sembrano voler offuscare la lotta partigiana.
Ripeto per non essere messo alla gogna dai sacerdoti del mito inviolabile, da coloro che pensano che quella stagione sia stata una passeggiata senza incidenti di percorso e prendo come punti di riferimento due storici di opposta scuola ma di grande spessore. Da una parte Renzo De Felice e dall’altra Claudio Pavone. Il primo non ha mai messo in discussione “quel grande evento storico” affermando che nessun revisionismo potrà mai negarlo. Claudio Pavone, ex partigiano “giellista”, si è mosso sulla stessa lunghezza d’onda, senza mancare di bollare chi s’era cullato con una “immagine apologetica, levigata e rassicurante”.
Ebbene fra il disegnare la Resistenza come un fenomeno trionfale e chi con fatica cerca ogni giorno di esplorare i lati oscuri che pur esistono, documentando il proprio cammino con dovizia di documenti, c’è chi come Pansa ama sostenere che la Resistenza altro non è stata che “una strategia politica” voluta e alimentata dal Pci per prendere, a guerra terminata, il potere. Il famoso fattore “K”.
Un assunto per fortuna bollato da decenni dalla storia e dalla nascita di una Repubblica democratica che semmai il Pci non solo ha difeso nella Costituzione all’articolo 7 (Chiesa e Stato indipendenti e sovrani) ma che nel giugno 1946 ha tentato di portare sulla strada della “pacificazione nazionale” con il decreto n. 4 di amnistia del Guardasigilli Palmiro Togliatti (segretario appunto del Pci) autorevole membro del governo del democristiano Alcide De Gasperi, migliaia di fascisti repubblicani già in galera e liberati, fatti salvi gli “efferati torturatori” che la Cassazione pensò bene di premiare ugualmente con una lettura vergognosa della legge. Ma questo è tema diverso.
Sull’altare, secondo Pansa, della volontà “di imporre una dittatura popolare d’impianto sovietico” il Pci avrebbe architettato un progetto criminale.
Pansa, fulminato nel suo arrovellarsi attorno al progetto, si è scordato come nel marzo del ’44 Togliatti, al momento dello sbarco a Napoli dopo anni di esilio a Mosca, rinviando la “questione istituzionale” alla fine del conflitto, aveva provveduto da subito ad aprire ai monarchici il governo del Sud con il risultato che nelle formazioni partigiane del Nord, comprese quelle “garibaldine” a maggioranza comunista, alti ufficiali dell’ex regio esercito (da Alessi a Curreno di Santa Maddalena, a Motta, ecc.) assunsero il comando militare, spesso con ottimi risultati, provocando interrogativi e lacerazione nel corpo dei combattenti sorpresi dalla mossa.
Pansa combatte una disperata battaglia ai mulini a vento, raccogliendo, ahinoi, e questo è il problema, spazi di consenso o comunque di acritica simpatia, in una collettività che in gran parte ignora i fatti citati. Il danno prodotto risulta mortale e di vaste proporzioni se si fa riferimento alle classifiche della varie testate giornalistiche che pongono “Bella Ciao” da settimane nelle posizioni di vertice.
Che i comunisti siano stati egemoni nella lotta al nazifascismo, piaccia o non piaccia, è un dato di fatto. I quadri dirigenti delle loro brigate provenivano in gran parte dalla guerra di Spagna, erano infatti i soli, stante la dittatura, in grado di delineare una strategia militare capace di ottenere dei risultati. I Gap (Gruppi d’azione patriottica) rappresentarono le truppe d’assalto, formate in maggioranza da operai per colpire al cuore i capi della Rsi e del Reich occupante.
Secondo Pansa i Gap furono semplicemente delle brigate di assassini con il compito di uccidere a freddo per fomentare rappresaglie sempre più feroci, materia prima per reazioni a loro volta più violente e così via nell’attesa miracolistica di un’Italia finalmente “satellite dei Soviet”.
Meglio stare alla finestra, guardare come le cose andassero a finire e poi magari mettersi addosso un fazzoletto rosso. Accadde proprio così anche dalle nostre parti quando alle poche decine di gappisti o anche meno di Walter Marcobi e di Claudio Macchi, Varese assistette alla moltiplicazione dei pani e dei pesci e le piazze furono invase da brigate dell’ultimissima ora, qualcuna addirittura arricchita da fuggiaschi del fascio.
Penso, e chiudo, al mio fraterno amico Giovanni Pesce “Visone”, medaglia d’oro al Valor Militare della Resistenza, “eroe nazionale” per decreto di Umberto di Savoia che riposa al Famedio a Milano, il luogo di coloro che hanno onorato nella loro vita la città. Fu il leggendario comandante del 3° Gap a Milano e prima a Torino. Anche su Pesce Pansa ha avuto modo di scorrazzare. Lo invito ad avere il coraggio civile di andare a visitare quel luogo sacro.
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