Reduce da una brutta distorsione, procuratami per rimediare alle magagne di un figlio, riscopro, su consiglio di un medico, il valore delle terme. Prima di approdare, ormai trentatré anni fa, nella capitale la nozione mi era vagamente astratta, legata al ricordo di un padre che spariva per qualche settimana ad Abano. Così ho sempre trattato con nordica sufficienza i molti romani che spesso si prendono la settimana alle terme.
Eppure la capitale è circondata dalla memoria di questa pratica. Già duecento anni prima che Agrippa costruisse le prime terme pubbliche nel 25 a.C., i bagni erano frequentati. Gli imperatori romani poi fecero gara a superare i loro predecessori con impianti sempre più grandi: Nerone nel 65 d.C., Tito nell’81 d.C., Domiziano nel 95 d.C., Commodo nel 185 d.C., Caracalla nel 217 d.C., Diocleziano nel 302 d.C. e Costantino nel 315 d.C. Per assicurarsi popolarità, le tariffe di ingresso venivano tenute basse, se non gratuite. Dentro e fuori Roma si vedono ancora i resti degli undici grandi acquedotti che le rifornivano.
I rituali potevano variare da provincia a provincia a secondo dei costumi locali, tuttavia il concetto era lo stesso: la maggior parte delle terme includeva centri sportivi, piscine, parchi, addirittura piccoli teatri per ascoltare poesia e musica. I romani terminavano le attività nelle prime ore del pomeriggio e vi si recavano prima del pasto principale serale. Un tipico ciclo iniziava con la ginnastica in palestra utilizzando piccole palle di cuoio o stecche di legno. Poi ci si recava ai bagni attraverso tre stanze, partendo da quella con l’acqua più tiepida fino a quella con l’acqua più calda: nel tepidarium, la stanza più grande e lussuosa delle terme, si restava un’ora circa, poi toccava al calidarium: stanze più piccole, generalmente costruite sui lati della sala da bagno principale. Infine si andava al laconicum, il luogo finale più caldo, riscaldato con aria secca ad alta temperatura. Pulizia del corpo, massaggi a base di olii profumati e una nuotata nella piscina del frigidarium concludevano il pomeriggio.
La popolarità di questi luoghi, costruiti con i bottini delle campagne d’occupazione, era fuori discussione. Tra Roma e provincia,sino alle calate barbare che ne distrussero gran parte, erano in funzione oltre ottocento impianti. Quanti affari,congiure,guerre e amori sono nati tra quelle mura ?
Il mio ciclo terapeutico si è consumato alla ‘Ficoncella’. Tre grandi pozze d’acqua d’origine vulcanica alle porte di Civitavecchia. Nulla di lussuoso. Piuttosto, in cima a una collinetta appena fuori l’autostrada da cui si domina il porto, alcune baracche di legno intorno alla secolare pianta di fico da cui prende nome il luogo. All’ingresso un furgoncino vende vini e formaggi sardi, si presume, sbarcati in mattinata dal porto. Vecchie sedie a sdraio di legno e un piccolo bar in plexiglas completano un arredo urbano che sarebbe piaciuto a Pasolini. Pagando tre euro ci s’immerge nell’acqua bollente per brevi periodi, tra vapori e pietre riscaldate dal sole. E, come negli scomparti dei vagoni ferroviari, si è costretti a chiacchiere con i compagni occasionali. Il caldo che avvolge e rimanda a sensazioni di primordiale sicurezza, facilita il discorso. Così i vecchi del posto non possono fare a meno di raccontarti la loro rude vita accompagnandola a lusinghieri elogi dell’acqua del posto che assicurano “curava le ferite dei gladiatori”. Attempate signore ti aggiornano sulla loro situazione familiare e di questi figli “che non se ne vanno mai”.
Arrivano un gruppo di veneti in camper, che ha saputo in internet del posto, e l’immancabile coppia di tedeschi, che conosce meglio di chi vi abita l’Italia, impiegati in pausa pranzo e un romano in stile gallo cedrone che “venti minuti fa stavo all’Eur”. L’insieme è una curiosa mescolanza di campagna e turismo, degenza e chiacchiera, calori e sapori, vapore e dolore. E ti trovi a pensare immancabilmente a quanto i romani se la siano goduta nel tempo.
Dimenticavo: dopo tre giorni la caviglia è nettamente migliorata.
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