Non ho mai avuto una gran passione per il carnevale, nemmeno in età giovanile. Persino il ballo dei bambini del giovedì grasso non mi appassionava: le mie maschere sempre un po’ improvvisate, alle feste ero accompagnato da qualche domestica, dato che i miei genitori dovevano lavorare. Nemmeno da adolescente ricordo una festa speciale.
Una settimana diversa fu quella di trent’anni fa. Mia moglie, incinta di Vera, cuce di martedì grasso il costume da pagliaccio di Sergio, il primogenito di due anni e pochi mesi. Il parto è previsto per la settimana successiva, il dovere mi chiama a Roma. Nella tarda serata di mercoledì una telefonata: “Ho le doglie, vado in ospedale.” Nonostante prenda il primo aereo del mattino successivo, mi perdo la nascita di Vera, che ancora porta un po’ impresso nel carattere estroso questo stigma di essere nata di giovedì grasso.
Ora Vera, felicemente sposata, compie x anni proprio nella settimana di carnevale. Festa mascherata con amici, fratelli e, piacevole sorpresa, sono invitati pure i genitori. Piacevole, ma non entusiasmante, non mi passa per la testa di dannarmi per realizzare una maschera speciale, condizione imprescindibile per essere ammesso alla festa dei giovani. Lascio fare alle donne: “Ti abbiamo trovato un mantello nero, una maschera, sarai la Morte.”
“Grazie, bell’idea, proprio adatta a me! È un augurio? Una prospettiva a breve?”
Mi adeguo, raccatto qualche accessorio, tutto in nero, un campanaccio per ricordare che la campana suona per te, mi fisso nella mente qualche frase d’occasione, qualche strofetta di De Andrè e dei Carmina Burana per accogliere gli ospiti e recito la mia parte. È ovvio che nessuno si spaventa, ma finalmente mi sento a mio agio, recitando la parte del guastafeste per gitane e travestiti, giapponesine e cowboy, per il due di picche e per il cattivo di Arancia meccanica.
Mi sovviene del carnevale medievale, col suo fondo pagano e la sua “ideologia” di “festa dei folli.”
Per un giorno i ruoli sociali erano sovvertiti, il padrone e il servo si scambiavano abiti e compiti, il re del carnevale acquisiva un potere effimero, ma effettivo sulla città, lo scherzo e la satira si spingevano fino al dileggio, del tutto impunito. Poi tornava tutto come prima all’alba della quaresima.
Dispenso con maggior convinzione i miei lugubri aforismi, anche se mi astengo dalla volgarità e dal dileggio. Non posso trattenermi dal desiderare di depositare cenere sulle teste dei miei amici e dal pensare che forse non è il carnevale ad essere una reazione alle annunciate penitenze imposte dalla quaresima, ma che, proprio con la rivendicazione di effimero sovvertimento delle abitudini e dei ruoli sociali consolidati, ne diventa un preludio necessario, che esprime con un altro linguaggio il senso di caducità e di necessario cambiamento.
Certo, si mescolano comportamenti trasgressivi, usi e costumi paganeggianti, ma la stranezza e la tristezza della vita è che, almeno per una parte della popolazione giovanile, la trasgressione è diventata abitudine e sembra richiedere di alzare sempre più il livello della posta in gioco. Nell’ascolto involontario delle chiacchiere sul treno e dall’assistere impotente a ripetuti e volontari comportamenti scorretti, ricavo l’impressione che molti sia sempre “carnevale ”, che sia quotidiana una condizione permanente di irresponsabilità, di assopimento della coscienza, peraltro certificata dalla mancanza di presa di posizione degli adulti presenti, dai viaggiatori al personale che dovrebbe controllare e contenere tali comportamenti, almeno a scopo educativo.
Torniamo dunque alla tradizione, per cui non sempre, ma “una volta all’anno è lecito fare pazzie”, se il di-vertirsi apre la porta al con-vertirsi, assecondando il moto della coscienza che non è mai abitudinaria, ma che esige un paragone continuo tra sé e la realtà.. Quindi farò uno sforzo per dar credito alla leggenda che il carnevale ambrosiano cominci quattro giorni dopo per dar tempo a S. Ambrogio di tornare a Milano da un viaggio per potervi partecipare; non è vero, ovviamente e non vi tedio con la spiegazione della storia della liturgia che ha introdotto questa variante, ma voglio sforzarmi di crederci, nella speranza di contagiare anche voi, amici lettori e in particolare il caro Sebastiano Conformi, in una sana, ironica, ma positiva considerazione della paradossalità (che vuol dire: “andare contro l’opinione comune”) dell’effimera condizione umana. Anche la vita intera è un bel gioco, perché dura poco.
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