Stemperatisi, man mano, gli effetti disastrosi di Caporetto e l’euforia per una vittoria che sembrava a portata di mano, i nostri avversari dovettero giocoforza realizzare che non avrebbero facilmente messo a terra soldati i quali, pur se privi di elevate attitudini militari, avevano un approccio emotivo con la guerra molto diverso dal loro e che, per quella ragione, erano capaci di rendere eroiche perfino la tragedia o la farsa. Il primo a fare le spese della capacità degli italiani di saper fare anche il gioco duro fu un Generale tedesco. Quando, dopo aspri combattimenti, il Generale Albert von Berrer riuscì a occupare Udine, non immaginava che in una città devastata e deserta due Carabinieri, invece di ritirarsi col grosso delle loro forze, erano rimasti ad attenderlo per farlo fuori. Cosa che, poi, puntualmente fecero.
Ma sarebbero tanti gli esempi che si potrebbero fare su questa nostra capacità di saper riemergere repentinamente dalle sconfitte, capacità che talvolta ci rende straordinari soldati ma, per non annoiare il lettore, ci limiteremo a raccontare quelli che, secondo noi, sono i più significativi.
Il Caporal Maggiore Ermanno Sommavilla, anziano Caporale di una sezione – mitragliatrici nella quale militava anche l’unico figlio diciannovenne, dopo averne vanamente trasportato il corpo senza vita presso un posto di medicazione, ne prese la giubba insanguinata e, agitandola come una bandiera, si lanciò urlando all’assalto e, prima di essere abbattuto a sua volta, eliminò parecchi austriaci. Un soldato calabrese, invece, portava agganciata allo zaino una grossa croce raccolta in un cimitero di guerra e che, prima di ogni combattimento, piantava sul bordo della trincea e alla sua ombra iniziava tranquillamente a sparare, certo che Cristo lo avrebbe protetto perché era dalla nostra parte.
Dopo aver superato la bufera di Caporetto, qualcosa, comunque, era cambiato nell’animo dei soldati italiani perché essi non stavano più fronteggiando il nemico alla frontiera ma in casa, dove erano i campi, la parrocchia, la fabbrica e la famiglia. L’idea che l’invasore potesse, in qualche modo, mettere in pericolo quei piccoli mondi personali ebbe un enorme impatto sulla loro sfera emotiva sicché, più che per un’astrazione di Patria, iniziarono a combattere per se stessi, come scriverà a casa, due giorni prima di rimanere ucciso, il Bersagliere dell’8° Reggimento Aldo De Min: «Voi siete la mia bandiera e per voi pugnerò, per voi darò la parte migliore di me, e combattendo per la Patria vi assicuro che pugno anche per voi».
Le notizie di violenze, spoliazioni sistematiche e stupri provenienti dalle zone occupate dagli austro tedeschi dopo Caporetto riusciranno – cosa insolita – ad instillare l’odio nei cuori dei nostri combattenti. Sul corpo martoriato del soldato Ugo Cantucci, del 17° Fanteria, fu trovato il seguente testamento: «Se questo foglio mi dovesse essere trovato addosso […] desidero che la mia salma sia seppellita in questa terra per la quale combatto volontario; che la mia fronte sia rivolta verso il nemico per il quale avrò l’ultimo sguardo d’odio».
Per fortuna, nel giro di pochi mesi l’Esercito italiano in tutte le sue componenti riuscì a raddrizzare la schiena, ribaltando una situazione che sembrava irrimediabilmente compromessa: fu eroismo, amore per la propria terra o la solita incoscienza eroica? Probabilmente furono tutte e tre le cose insieme. Nella zona di Zenson del Piave, il 15 giugno 1918, il Tenente Piero Fadigati, per testare il coraggio del suo plotone di Arditi, pensò che non vi fosse nulla di meglio che tenerlo sconsideratamente irrigidito sull’attenti, allo scoperto, mentre intorno esplodevano i micidiali proietti dell’artiglieria austriaca. Invece, il suo collega del 22° Fanteria, Arrigo Biego, prima di cadere a Monfalcone, così scrisse alla fidanzata: «Com’è brutto uccidersi sotto questo cielo, davanti a questo mare, in questa notte d’indicibile poesia, in cui la natura sembra farsi più bella per dilaniare il cuore dei morenti, con l’ultimo sorriso, come d’insaziabile sirena! Ma tu, o Patria, lo vuoi? Ebbene sia!».
Neppure la prospettiva della morte riesce ad annacquare la nostra vena emotiva. Ma vi furono anche coloro che si batterono da bravi soldati pur senza soggiacere a impulsi emozionali. Cesare Battisti, che pochi giorni dopo sarebbe stato catturato e impiccato dagli austriaci, così descrisse il nostro comando in una lucida lettera alla moglie: «Chi impera qui, stando a valle, senza conoscere né capire nulla dell’alta montagna (alla quale mai sono arrivati) è una combriccola di alti ufficiali inetti, vecchi, paurosi, che preferiscono far nulla per la paura che hanno di fare dei fiaschi, con danno delle loro carriere». Ma, grazie anche all’esautorazione del Generale Cadorna, l’Esercito – appena un anno dopo Caporetto – arrivò alla vittoria cosiddetta di Vittorio Veneto, minacciando alle spalle la stessa Germania, con una rapidità tale che il suo nuovo Capo di Stato Maggiore, il napoletano Armando Diaz, non riuscendo a seguire l’avanzata delle Unità sulle carte topografiche che aveva d’avanti, sbottò: «Né, ma ‘stò Vittorio Veneto addò c…. sta?». Insomma terminammo la Grande Guerra in una località che il nostro invitto condottiero – nominato poi duca della vittoria dal re – non sapeva neppure dove fosse.
quarta e ultima puntata. Le prime tre sono state pubblicate l’8, 15 e 22 febbraio
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