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Cara Varese

LA CANAGLIATA

PIERFAUSTO VEDANI - 07/03/2014

Erano da poco in archivio Adamo ed Eva e già nei sotterranei del genere umano scorrevano fiumare di odio, violenza, sopraffazione, intolleranza, imbecillità, pronte a emergere e a devastare. Se oggi per alcune situazioni che riguardano piccole o grandi comunità vengono ammessi o sopportati rimpianti che si iniziano con la classica formula “Ai miei tempi i…” non sono possibili lagnosi ricordi di un bel tempo che fu davanti ad eventi ricorrenti da secoli, appunto la ricomparsa improvvisa delle perniciose fiumare. Se pensiamo che tutto vada bene siamo ugualmente rovinati: infatti schiviamo guerre di ogni tipo e dimensione, ma la realtà quotidiana offre manifestazioni preoccupanti di una violenza spesso fine a se stessa.

Le cronache italiane le raccontano ogni giorno e così da tempo ci dicono che anche in campi in cui le contrapposizioni sono cercate, ma con fini ludici e in qualche misura educativi, i confini del buon senso e della lealtà vengono spesso ignorati e travolti.

Mi riferisco in particolare a un territorio del buon senso e della civiltà qual è lo sport, dove a provocare danni non sono i protagonisti delle competizioni, ma tifosi scatenati, irragionevoli, che danneggiano la categoria alla quale appartengono, quella degli ultras, diversamente rappresentata nel pianeta nazionale del calcio.

Proprio perché a Varese sotto questo aspetto si attraversa un periodo tranquillo, ho malamente reagito apprendendo che fa parte della nostra comunità uno dei tre sconsiderati juventini che allo stadio di Torino in occasione del derby della Mole hanno esposto uno striscione che celebrava “festosamente” la tragedia aerea di Superga dove nel maggio del 1949 perì l’intera squadra del Torino.

Tanto ributtante cinismo ha colpito in particolare i varesini legati da amicizia e affetto ai fratelli Ossola, al ricordo della loro mamma, alla quale il figlio Franco, asso del Torino, telefonava a mezzogiorno perché gli facesse sentire il suono del campanone di san Vittore all’ombra del quale era cresciuto. E io non ho mai dimenticato nemmeno il racconto tristissimo, commovente di Peo Maroso, che a Superga perse il fratello. Era un racconto che a volte mi ripeteva avvicinandosi la data della tragedia: lo ascoltavo come se fosse la prima volta, partecipe di un dolore che a distanza di decenni non era diminuito.

Quando la polizia non ha reso noto il nome del terzetto della vergogna torinese non ho condiviso la decisione, ma poi ho guardato alla civiltà che c’era dietro questa scelta: non si era al processo, la magistratura doveva ancora pronunciarsi, non si voleva creare un ambiente difficile se non ostile attorno agli autori dello striscione, definito canaglia dal presidente della Juventus.

Non resta che augurarsi che prudenza e buonismo verso chi ha appena raggiunto la maggiore età portino frutti concreti, a una svolta umana che dia tranquillità anche alla famiglia del giovane. Tutto ciò nella speranza che l’anonimato non abbia crepe. Io ho fatto in proposito una singolare esperienza professionale quando ero cronista giudiziario a La Provincia di Como. Raccontai una vicenda per certi versi divertente: un trentenne tradiva la moglie, vicina al mezzo secolo, con una sessantenne. Non c’erano nomi e nemmeno iniziali, ma un intero quartiere di Como identificò subito i protagonisti dalla vicenda ed ebbi qualche problema nonostante mi si riconoscesse la volontà della tutela degli interessati.

Nella vicenda triste dello striscione oggi è importante che gli autori della bravata capiscano sino in fondo la portata del loro errore.

E non si sentano mai vittime. Sarebbero allora gente di brutte fiumare.

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