Il regista Paolo Sorrentino è uomo di mondo e felicemente si gode ora la statuetta dello zio Oscar. Non se ne può avere a male, dunque, se la prima cosa pensata alla notizia della vittoria di “La grande bellezza” non è stata “Quindici anni dopo!”, cioè tre lustri dopo l’exploit di Benigni con “La vita è bella”, ultimo – e adesso penultimo – trionfo italiano a Los Angeles, ma “Cinquantatre anni dopo!”. Cioè mezzo secolo e qualcosa più tardi dalla “Dolce vita” di Federico Fellini. Il quale Fellini, nel 1961, l’anno successivo alla presentazione nelle sale del suo grandioso film, aveva avuto la nomination e teneva in cascina già due prestigiose statuette: quella per “La strada” (1957) e quella per “Le notti di Cabiria”. Meritatissima sarebbe stata la terza per “La dolce vita” (arrivò invece nel 1964 grazie a “8 1/2”). Alla grande lacuna di allora, appunto, ha rimediato il nostro Sorrentino.
Molto s’è detto della somiglianza tra i due film, e qualcosa (o tanto) c’è, naturalmente, benché Paolo Sorrentino non si dichiari proprio d’accordo. E magari si infastidisca anche un po’, ma nel momento della gloria vi si può tranquillamente passare sopra. Limitiamoci – nel tratteggiare le similitudini, come nel gioco in cui si cercano di individuare i particolari uguali disegnati in due vignette – a sottolineare solo le parti a nostro giudizio più evidenti: 1) la città di Roma (l’Italia) sullo sfondo; 2) l’assenza di una trama precisa e più tocchi a disegnare quel che si dice un “grande affresco”; 3) la professione del protagonista, scrittore e giornalista: Marcello (Mastroianni) allora, Jep Gambardella (Toni Servillo) oggi; 4) alcuni temi individuati o sfiorati: il decadimento culturale, la spiritualità che si confonde con la moda o con la superstizione, il cinismo (c’era anche nel film di Fellini, sebbene – così è stato scritto – “più benevolo”); 5) la conclusione, cioè la non conclusione, che sta nel ricordo e nella speranza, nella denuncia e nella provocazione, in qualcosa che dovrebbe arrivare e che magari è già arrivato.
E poi le differenze. A cominciare dal fatto – ed è probabilmente l’aspetto principale della questione – che l’Italia di oggi, se può assomigliare in qualcosa al suo passato, perché in fondo gli uomini – e nel caso gli italiani – sono sempre gli stessi, è un Paese di gran lunga diverso rispetto al passaggio cruciale tra i Cinquanta e i Sessanta: la guerra, che è una delle linee discriminanti della storia, ai tempi della “Dolce vita” era finita da poco, e oggi sono già trascorsi più di vent’anni da Tangentopoli e Trenta dagli anni di piombo.
Paolo Sorrentino, che non si può nemmeno considerare un figlio del boom, essendo nato nel 1970 – ovvero in un’epoca cui fa capo la generazione dell’imperante Tv, delle nutelle e poi dei telefonini –, non ha mai per sua fortuna o sfortuna respirato l’aria delle grandi speranze, in cui però già si celava l’inquinamento delle grandi delusioni. I sentimenti di quell’Eldorado non li ha sentiti direttamente sulla pelle ma ne ha letto e li ha visti e studiati al cinema.
Il suo film “La grande bellezza” può essere vicino o distante a “La dolce vita”, assomigliargli o no. È che in giro in ogni è caso rimasto qualcosa. Non proprio tutto è stato cancellato. È possibile che sia stato fatto, e senz’altro è stato fatto, un film nuovo. Più o meno cinico. Più o meno superficiale. Più o meno rispettoso dei tempi e delle genti che quei tempi li stanno vivendo. Ma Sorrentino non potrà mai chiamarsi fuori: di Federico Fellini, come ha egli stesso dichiarato, è certamente debitore, così come il grande romagnolo poteva essere debitore di Chaplin; magari, un po’ meno, Sorrentino è debitore di Diego Armando Maradona – c’è un po’ di confusione –, anche se tutto quanto fa spettacolo. Diciamo che a Maradona, da buon napoletano, s’è ispirato, come a Martin Scorsese o ai Talking Heads, miti di una generazione.
Gli americani, che più di mezzo secolo fa premiavano a ripetizione Federico, riconoscevano in lui un “marchio” di umanità, oltre che di italianità. È l’identica cosa accade ora, avendola reindividuata nell’opera di Sorrentino. E (non è escluso) prima in Benigni e ancora prima in Tornatore e in Salvatores.
Dell’Italia, della nostra disperazione e del nostro genio, della nostra eleganza formale e della nostra sciatteria sostanziale, negli Usa hanno idee ben precise. Più cartoline che lettere complicate. Se le tengano.
Noi, per il resto, godiamoci con orgoglio questo Oscar. Chi sa mai che non ci aiuti a uscire dalle secche.
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