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Attualità

MARIA CHE RESTERÀ PARALIZZATA

FLAVIO VANETTI - 07/03/2014

Basta una notizia di cronaca a rinverdire il ricordo, di giorno in giorno sempre più sfumato, dei Giochi olimpici di Sochi. Ed è una notizia triste: Maria Komissarova resterà paralizzata a ventitre anni di età. Chi è Maria Komissarova? Una snowboarder russa che lo scorso 15 febbraio è caduta rovinosamente durante gli allenamenti del freestyle e le cui condizioni erano apparse gravi fin dall’inizio.

Che l’Extreme Park di Rosa Khutor — quel parco giochi dell’Olimpiade bianca edizione 2014, fatto di gobbe, salti, ringhiere, trampolini e curvone paraboliche nato per inseguire gli X Games ed attirare un pubblico sempre più giovane — fosse in realtà una trappola pericolosissima, ce n’eravamo accorti già in precedenza. Dalla nuova specialità olimpica era ad esempio scappato Shaun White, fenomeno dell’halfpipe (la disciplina nella quale, con gli sci o con la tavola, si danza e si ondeggia in un enorme tubo tagliato a metà e ricoperto di neve) che sognava di aggiungere un nuovo scalpo alla terza conferma consecutiva nella specialità che l’ha reso un’icona mondiale.

Ecco, una pesante caduta ha convinto Shaun a desistere con lo slopestyle, beccandosi anche gli sfottò dei colleghi che lo accusavano di codardia. E poco importa se poi non è riuscito a centrare la tripletta olimpica nell’HP: quella rinuncia ha fatto più clamore della sconfitta sul terreno preferito.

Il freestyle, certo, è diverso dallo slopstyle e dalle altre pratiche estreme care ai ragazzi di oggi. Ma è pur sempre una sfida acrobatica che può avere pesanti conseguenze. Maria, ventitre anni e un podio nella Coppa del mondo, era caduta rimanendo esanime sulla neve. L’operazione alla schiena aveva rivelato una diagnosi seria (frattura alla colonna vertebrale) e le successive cure all’ospedale di Monaco di Baviera, dove la russa fu trasportata d’urgenza (dopo la visita del presidente Putin) e dove tuttora giace, hanno riservato la sentenza più temuta e inappellabile: “Tenuto conto della gravità del suo infortunio, la funzionalità della colonna vertebrale è irrimediabilmente compromessa”. Maria, cioè, rimarrà paralizzata. È un calcio all’ottimismo di un’atleta che aveva dichiarato che quel rischio faceva parte delle regole del gioco e che soprattutto, nonostante non sentisse più il corpo dalla vita in giù, si era sforzata di pensare positivo: “Sono forte e voglio rimettermi in piedi”. Salvo miracoli, non succederà. O se succederà, come le auguriamo, sarà mediante l’ausilio di qualcosa in grado di sostenerla. Scorrendo i passaggi del suo dramma personale, viene da dire che una volta di più la realtà pone l’accento su cose più importanti di quelle che immaginiamo.

Di Sochi potevamo e volevamo dire che, alla fine, è stata un’Olimpiade migliore e molto meglio organizzata del preventivato (e del temuto). Oppure che eravamo rimasti incantati da bellissime imprese, come quella delle ucraine del biathlon che sono andate a vincere l’oro nel giorno in cui il loro Paese scoppiava, travolto dalla guerra civile. Oppure ancora che ci avevano colpito la signorilità e il senso dello sport con i quali otto azzurri avevano salutato i loro quarti posti e quelle “medaglie di legno” che sono il simbolo della beffa estrema. Ma la storia di Maria Komissarova passa adesso davanti a tutto e a tutti. E stimola pure una domanda: vale la pena di correre certi pericoli? In probabile controtendenza rispetto alla logica, e pensando comunque al coraggio della giovane russa dopo quanto le è successo, dico di sì: al destino non si sfugge e quello, se non altro, è un destino in piena sintonia con un modo di stare al mondo e di vivere lo sport.

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