Secondo un teorema d’attualità le differenze tra ricchi e poveri non sono prodotte dalle culture ma, piuttosto, dalle istituzioni politiche, ossia dalle regole che stabiliscono i ruoli, le strutture e i meccanismi organizzativi che governano i comportamenti umani ordinandoli al bene comune.
Si capisce come il buon funzionamento della politica sia preliminare alla soluzione dei problemi secondo giustizia. Non basta quindi “il fare” ma è necessario che l’azione dei politici sia rapportata ad alcune mete, che i mezzi siano subordinati ai fini che si vogliono raggiungere. La politica non può prescindere dalle regole, dai contenuti e dagli obiettivi che servono a realizzare il bene di tutti. Ecco perché la moda della “leadership”, accompagnata dal culto della personalità, può servire a raccogliere facili consensi ma non anche a risolvere i problemi che vengono sempre rinviati ad un “nuovo inizio”.
Quella logica è anche alla base della “staffetta” tra Letta e Renzi; quest’ultimo è più “simpatico” del primo ma anche assai più superficiale; i suoi interventi sono brillanti ma anche scipiti. L’ex sindaco di Firenze è un politico post-moderno, ha capito più e meglio di altri che per affermarsi presso l’opinione pubblica, influenzata dalla televisione, deve diventare una “star”.
Al posto delle analisi rigorose sullo stato della società ha intercettato la domanda delle platee educate dai “talk show”e ha imparato che la politica deve essere semplificata e ridotta alla capacità di comprensione delle masse non più guidate dai partiti e scettiche verso le istituzioni.
La comunicazione deve essere un “feeling” tra cittadini e leader, deve rifuggire dagli apprendimenti troppo rigorosi e noiosi e basarsi su slogan e uscite improvvise. La coerenza, la consequenzialità è un fattore trascurabile perché il “popolo” è soggetto a umori imprevedibili e pertanto si deve cogliere l’attimo fuggente per approfittare di una corrente di simpatia che può svanire da un momento all’altro. Ecco perché il “cambio” di governo non poteva tardare. Così la “democrazia del pubblico” avanza e si sovrappone alla “democrazia della Costituzione”.
Daniel Cohn-Bendit, leader della rivolta studentesca del ’68, non sa se Renzi sia “un rivoluzionario di destra o di sinistra; ha fatto una rivoluzione nel senso che ha preso il potere con una rivolta interna al suo partito, ma non sa dove andare. Non ha idee sulla ecologia che per lui non esiste”. Ha avallato l’entrata del Partito Democratico nella famiglia socialista europea ma non capisce che è una forza vecchia, senza una strategia riformista per l’Europa. È stata una decisione intempestiva e sbagliata, affrontata con troppa superficialità e nessuna riflessione; in una parola: un errore. Il Partito Democratico rimuove la sua originalità che è quella di ambire al cambiamento. Ha rinunciato a discutere e a contrattare la nascita di un nuovo soggetto politico europeo che non può essere il vecchio Partito Socialista, la cui idea è stata logorata dalla storia del Novecento. Poteva almeno chiedere che venisse accolto l’ “incipit” della S.P.D. tedesca del 1959 in cui si dice che la socialdemocrazia affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo. Così non è stato e si è sottovalutato il ruolo del Partito Socialista in Europa.
I politici post-moderni hanno in odio quelli tradizionali, con il loro bagaglio di conoscenze ed esperienze; ma più di Bossi, più di Berlusconi, ancora di più di Renzi è l’ex-comico Beppe Grillo che vuole “rottamare” la politica dei partiti, non per la realtà delle sue malefatte ma per l’improbabile intuizione che faceva dire a Pier Paolo Pasolini: “Non ho le prove ma accuso la Democrazia Cristiana”. La lezione di Grillo è fatta di moralismo e di cinismo, non è una lezione democratica ma nichilista.
Sulla base di questo teorema è stata attuata, negli anni Novanta, la distruzione del “centro” che però non ha portato al bipolarismo o al bipartitismo ma ad una situazione di incertezza e di instabilità che deve affidarsi, per stato di necessità, alle “larghe intese”.
La scomparsa del “centro” ha prodotto in realtà una impossibilità di alleanze sia di “centro-destra” che di “centro-sinistra”, tutti diffidano di tutti ma nessuno ha un programma su cui confrontarsi. L’alleanza di Renzi con lo “spezzone” di destra di Alfano gli toglie la possibilità di allargarsi verso l’elettorato moderato e lo costringe a presidiare lo spazio di consensi della sinistra. Una base che peraltro non è molto soddisfatta del trattamento riservato a Letta ed è pronta a prendere le distanze qualora il n uovo governo dovesse deludere le attese. Ma anche Alfano deve dimostrare che il suo “Nuovo Centro Destra” non è un satellite del Partito Democratico e non riesce a sfondare più di tanto nelle praterie della destra illiberale di Berlusconi.
Valeva la pena di far fuori la Democrazia Cristiana, con le sue indubbie responsabilità ma anche con i suoi indiscutibili meriti, per ottenere tale modesto risultato? Aveva ragione Alessandro Manzoni nello scrivere. “Italia pentita sempre, ma cangiata mai!”.
Il nostro sistema politico non ha in sé la forza decisiva per attuare un radicale cambiamento e può soltanto prendere pochi provvedimenti economici per tamponare la crisi e varare un paio di riforme importanti: quella elettorale e quella del Senato.
Matteo Renzi, mancando di una base parlamentare omogenea (aveva promesso: “Non andrò al governo senza passare dalle elezioni”), non potrà “fare” oltre l’ordinaria amministrazione. Valeva la pena di provocare una crisi di governo che non sarà certamente risolutiva?
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