Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Cultura

NON È MAI TROPPO TARDI

MARGHERITA GIROMINI - 28/02/2014

Una fiction di due sere consecutive, il 24 e il 25 febbraio, sulla TV nazionale, ci ha raccontato la storia di Alberto Manzi, maestro, termine di cui è utile richiamare l’etimologia: la radice “magis” così come “magnus” ci rimanda a una persona che possiede “più” qualità, qualcuno che va ritenuto un “grande”. Parliamo di Alberto Manzi, il “Maestro” dell’Italia che si affaccia all’industrializzazione degli anni ’60 e si accorge di rivolgersi ad un popolo di analfabeti (il venticinque per cento nelle isole maggiori). Uomini e donne che hanno urgenza di imparare i primi rudimenti del sapere, leggere e scrivere, e in un tempo ragionevole.

Era il 1960 e la Rai, che lo scorso 3 gennaio ha compiuto sessant’anni, costituiva il grande e moderno mezzo di comunicazione di un paese troppo lungo, troppo montuoso, scarsamente collegato, con scuole non sempre raggiungibili. La TV era la chiave da usare per rivolgersi alle masse. L’idea geniale di lezioni in TV, pensate per raggiungere un numero elevato di persone, riunite davanti ad un apparecchio televisivo, si poteva realizzare solo con il giusto interprete. Alberto Manzi superò il provino e per otto anni, dal 1960 al 1968, fu il maestro catodico degli italiani. La sera prima di cena (gli adulti lavoravano durante il giorno!), armato di gessetti e di lavagna, spiegava le regole della nostra lingua. Il risultato: quattrocento ottantaquattro puntate e un milione e mezzo di persone che ottennero il diploma di scuola elementare.

Una persona speciale? Sicuramente sì, ma anche un maestro controcorrente, capace di svolgere il suo compito con intelligenza, abilità e flessibilità: con l’esperienza pregressa di insegnante in un carcere minorile, con novanta ragazzi analfabeti, riuscì dove ben quattro suoi colleghi avevano fallito. Realizzò uno spettacolo teatrale basato su un testo frutto del lavoro di quattro carcerati; in un’aula senza arredi né materiale didattico pubblicò “La tradotta”, il primo giornale italiano prodotto in un carcere.

Chiediamoci che cosa contraddistingue un maestro speciale da un “normale” docente. Oltre alle competenze di base, che dovrebbero essere scontate, la capacità di relazionarsi in modo creativo, di individuare percorsi nuovi per attirare e mantenere l’attenzione; al provino Manzi stracciò il copione e propose la “sua” lezione sulla base di rapidi disegni tracciati su un foglio bianco. Un metodo audiovisivo, rivoluzionario in tempi di aste e righello. Un maestro appassionato del proprio lavoro che, finita l’esperienza televisiva, ritornò a scuola, ad insegnare ai bambini delle elementari, pur essendo in possesso di due lauree, una in pedagogia e una in biologia. Conosciuto all’estero, si recò a parlare dell’esperienza scolastica televisiva sia in America Latina, dove gli analfabeti erano numerosi, sia in alcune università del Nord America, interessate al suo metodo di insegnamento. Il suo modello fu indicato dall’UNESCO come uno dei migliori per la lotta contro l’analfabetismo. Manzi fu attivissimo come scrittore di romanzi per ragazzi e di testi che diedero vita a fortunate trasmissioni televisive. Per vent’anni trascorse le vacanze estive in Amazzonia ad insegnare ai nativi, con l’appoggio dei Salesiani.

Ebbe però un pessimo rapporto con le gerarchie scolastiche, direttori, ispettori, Ministero: rimase negli annali della scuola italiana la sua ferma opposizione al nuovo sistema di valutazione, quello introdotto nel 1977 con l’abolizione dei voti numerici.

Manzi si rifiutò di elaborare “giudizi” discorsivi sui bambini, affermando che in quel modo essi sarebbero stati incasellati in descrizioni di risultati e di comportamenti, giudizi ben più dolorosi di un asettico “5” o “4”. Per questa disobbedienza fu sospeso dal servizio, privato dello stipendio, messo in disparte dalla pedagogia in auge in quegli anni. Riammesso a scuola con l’impegno di compilare le schede, elaborò una frase uguale per tutti, bravi e meno bravi “fa quel che può, quel che non può non fa”, frase che fece riprodurre su un timbro da stampigliare sulla scheda. E il contenzioso burocratico si protrasse per qualche tempo.

Difficile incasellare una persona così poliedrica, creativa e anche ribelle in uno schema di semplice interpretazione. Buono l’intento della fiction che restituisce valore ad un’idea pedagogica forte del secolo scorso, aperto da Maria Montessori e chiuso nel 1997 con la scomparsa del “maestro d’Italia”.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login