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Lettera da Roma

LA CARITÀ IN TAVOLA

PAOLO CREMONESI - 28/02/2014

C’è una mensa presso la mia parrocchia San Giuseppe Cottolengo a Valle Aurelia. Ci vado ogni martedì nel tardo pomeriggio. Serviamo una cena alle 18, per un centinaio di persone, cucinata dalle donne del quartiere grazie a offerte alimentari dei negozi o acquisti fatti con offerte della carità.

Si forma di solito una lunga fila al cancelli d’ingresso già mezz’ora prima dell’apertura. Sono soprattutto extracomunitari: africani e bengalesi, slavi ma, è scontato scriverlo, sempre più si presentano italiani in cerca di un pasto caldo. Tutti si siedono composti in lunghi tavoloni e ognuno viene servito al posto con stoviglie di plastica. È vietato ogni genere di alcolici e chi arriva in stato di ebbrezza, viene gentilmente ma fermamente allontanato.

La scorsa settimana la fila è iniziata un’ora prima dell’inizio. Alla fine del turno abbiamo dovuto servire piatti freddi preparati all’impronta per la grande richiesta. È un dato che a Roma cresca vertiginosamente il numero di chi si rivolge a una mensa della carità. Nell’ultimo anno si è passato da una media di quindicimila a quella di ventimila il giorno. Uomini, donne del ceto medio che hanno subito un rovescio improvviso. Anziani risucchiati dalla crisi accanto a ex commercianti o impiegati che hanno perso il lavoro. Nel Lazio sono soprattutto le famiglie numerose a soffrire gli effetti dell’attuale congiuntura: il sei per cento del dodici per cento complessivo.

A far fronte a questa crescente domanda sono sorte alcune interessanti iniziative come ‘siticibo’ del Banco Alimentare che, d’intesa con il Comune di Roma, si preoccupa di monitorare le grandi mense aziendali della capitale per distribuire in giornata agli enti assistenziali le eventuali eccedenze. Ma è soprattutto il piccolo esercito delle parrocchie a costruire una trama di gesti di carità. Donne che iniziano a cucinare la mattina presto per poter essere pronte alla sera. Adulti e universitari che distribuiscono pacchi alimentari alle famiglie bisognose.

Ogni volta che dedico un paio d’ore del mio tempo alla mensa, i volti delle persone lì sedute mi segnano in maniera indelebile. C’è chi ringrazia alla fine della cena e chi non riesce nemmeno a sollevare lo sguardo per la rabbia della sorte avversa. Ci sono famiglie con bimbi di cui non puoi non domandarti quale sarà il loro futuro e donne di algida e passata bellezza con un volto rassegnato e stanco. Stranieri ancora fieri e capaci di guardare lontano, altri piegati e feriti dalla lotta per la sopravvivenza. In tutti traspare una dignità che la miseria del momento non riesce a spegnere. Guardarli solo sull’onda del bisogno immediato è il più grande torto che si possa loro fare. Più che nemmeno, preso da un raptus improvviso, volessi negargli il pasto agognato. La lezione più bella da questo punto di vista me l’ha offerta un polacco seduto all’angolo più lontano di un tavolo. In una sera fredda e ringhiosa d’inverno nel salone affollato correvamo di qua e di là per cercare di servire tutti. Non riuscendo ad arrivare direttamente a lui, ho lasciato scorrere una rosetta di pane verso il suo posto. Sembrava stesse sonnecchiando. Ma ha alzato lo sguardo e mi ha fulminato con lo sguardo: “non sono un cane” ha sibilato.

Da allora sto bene attento a servire uno per uno, guardandolo negli occhi e porgendo il piatto. Ho capito che ciascuno ha bisogno di essere trattato e abbracciato ogni giorno per quello che è: una persona. La stessa mia natura.

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