Le sostituzioni dei Comandanti effettuate da Cadorna non furono di tipo meritocratico, perché egli non sceglieva i propri sottoposti in virtù delle loro conclamate doti professionali, ma unicamente per la loro capacità di applicare senza fiatare le sue direttive. Il che, anche se era ineccepibile dal punto di vista disciplinare, non incoraggiava l’autonomia decisionale dei comandanti di alto, medio e basso livello: se un qualsiasi comandante di plotone, prima di contrattaccare, ad esempio, una pattuglia nemica infiltratasi nel proprio settore, doveva attendere il beneplacito dei suoi superiori, quel giovane comandante era destinato a perdere il plotone, la posizione e, soprattutto, la capacità di decidere autonomamente, e rapidamente, al momento opportuno.
Questa era, in sostanza, la fotografia della situazione che Cadorna aveva determinato tra i suoi sottoposti, anche se tra essi quello che sapeva spendersi meglio con la stampa era il comandante del XXVII Corpo d’Armata, Pietro Badoglio. Alla presenza degli inviati di guerra Badoglio sapeva essere amabile, rassicurante e convincente, come quando si fermò a parlare con i militari di una Compagnia di fantaccini che incontrò sulla sua strada: «Io sono il vostro comandante di Corpo d’Armata. Dunque saremo attaccati dagli austriaci e dai germanici. Niente paura ragazzi, gliele daremo. Io ho tanti cannoni da fracassarli prima che giungano alle vostre linee». Salvo, poi, non ordinare alla sua artiglieria di sparare sugli austro – tedeschi quando sfileranno, indisturbati, in direzione di Caporetto.
Ma come si arrivò a Caporetto? Quando il comando austriaco concepì un’azione contro l’ala sinistra della 2^ Armata italiana, i loro alleati tedeschi dirottarono sul nostro fronte sette Divisioni scelte, ben munite di artiglieria. Il progetto austriaco era, inizialmente, quello di costringere gli italiani ad abbandonare le posizioni conquistate nella primavera precedente, ma i tedeschi, ampliando la manovra, progettarono di risalire il fondovalle dell’Isonzo per assestare il colpo mortale all’Esercito italiano tra Tolmino e Plezzo, al fine di chiudere definitivamente la partita con l’Italia e potere, così, risucchiare truppe austriache sul versante francese, che a loro stava molto più a cuore. Dal punto di vista concettuale i tedeschi manovrarono come fecero con la cavalleria, a Sedàn, e come faranno ancora nel 1939, quando riusciranno a coordinare sapientemente l’azione delle Divisioni corazzate e dei cacciabombardieri, in quella che sarà chiamata “guerra lampo”.
Il lavoro d’infiltrazione combinata che i tedeschi fecero nello schieramento francese nel 1870 con le cosiddette antenne di cavalleria, a Caporetto fu svolto, almeno inizialmente, da reparti che potremmo definire grossi pattuglioni, uno dei quali era comandato da un giovane Capitano tedesco che nel corso della nostra storia incontreremo ancora, Erwin Rommel. Ebbene, il 24 ottobre del 1917, quei pattuglioni, appoggiati dall’artiglieria concentrarono la loro azione su di un ristretto segmento del nostro schieramento, riuscendo ad aprire una breccia in cui s’infilarono assieme ai reparti che li seguivano.
Fino a quel momento era soltanto un tentativo di aggiramento, ma questo bastò a dare ai comandanti delle nostre Unità – che ormai non sapevano più decidere e valutare autonomamente – la certezza di essere stati completamente aggirati. Né migliore prova diede l’artiglieria del XXVII Corpo d’Armata alla quale Badoglio aveva proibito di sparare senza un suo ordine, per cui mentre i tedeschi sfilavano in direzione di Caporetto, i suoi cannoni tacquero perché lui era assente. Ma stabilire, con precisione, cosa accadde in quei caotici, tremendi giorni sarebbe un’impresa ardua, perciò il lettore dovrà accontentarsi di una brutale sintesi degli antefatti. E gli antefatti furono questi: Cadorna voleva l’approntamento di un rapido schieramento difensivo, mentre il comandante della II Armata, Generale Luigi Capello, propendeva per quello offensivo. Alla fine si scelse di attuare uno schieramento idoneo per una controffensiva; salvo, appena tre giorni prima di Caporetto, il tentativo di ritornare allo schieramento difensivo. Insomma, quando gli austro – tedeschi scatenarono la 12° battaglia dell’Isonzo, Cadorna non sapeva con quale schieramento la stava fronteggiando! Ma, pur essendo un disastro militare, Caporetto non riuscì a diventare un irrimediabile disastro nazionale soltanto perché i soldati italiani seppero attingere, ancora una volta, alla loro intima essenza emotiva.
Nonostante stessero disordinatamente rinculando non meno di 400.000 uomini, possiamo dire che, complessivamente, i nostri fantaccini reagirono a Caporetto meglio della classe dirigente, sia quella in divisa che quella in borghese. Badoglio, che nel momento cruciale del disastro non si trovava al suo posto di comando (si sospettò che fosse andato a donne nelle retrovie), si accasciò aspettando che i Carabinieri venissero ad arrestarlo per abbandono di comando e insubordinazione. Infatti, se – come gli era stato ordinato di fare – egli avesse provveduto ad estendere l’ala sinistra della sua Unità fino al fondovalle dell’Isonzo, avrebbe potuto intercettare i tedeschi che vi sfilavano in direzione di Caporetto. Ma Badoglio supererà indenne la catastrofe che aveva contribuito a provocare, anzi, finirà da comandante di Armata una guerra che aveva iniziato da Colonnello. Egli riuscirà a passare indenne e potente attraverso tre regimi e, tuttavia, a volere definire l’intera sua vita professionale si può soltanto ricorrere alla definizione che il filosofo Silvio Spaventa coniò per Agostino Depretis: «Un cesso che resta pulito sebbene ogni immondezza vi passi». Cadorna, invece, dopo avere scaricato la colpa del disastro militare sulla II Armata del Generale Capello, mandò letteralmente a cagare l’emotivo Ministro per l’Assistenza ai soldati, Leonida Bissolati, il quale gli aveva proposto di suicidarsi insieme per non sopravvivere alla sconfitta che ormai dava per certa.
Il quadro che, alla fine, emerge non è esaltante per la saldezza dei nervi di chi ebbe la responsabilità della conduzione di quella guerra e del Paese, fatta eccezione per Cadorna. La sua testardaggine e un invidiabile sangue freddo, infatti, gli consentirono di non perdere la testa e di approntare, in fretta e furia, uno schieramento difensivo lungo il fiume Piave, contro il quale si arrestò gradualmente l’offensiva austro – tedesca. Ma, nonostante questo merito indiscutibile, era chiaro che la prima grande guerra del XX secolo era qualcosa che andava oltre la comprensione di Cadorna, perché egli per formazione professionale e cultura apparteneva al secolo precedente.
Terza di quattro puntate. Le precedenti sono state pubblicate l’8 e il 15 febbraio
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