Il 28 maggio del 1608, a Mantova, in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Margherita di Savoia con Francesco Gonzaga, andò per la prima volta in scena uno spettacolo che, sia pure con la dovuta nonchalance (o sprezzatura, per usare un termine più corretto) aveva l’ambizione di voler radicalmente innovare l’etica della corte. Si trattava de L’Arianna, di Claudio Monteverdi e Ottavio Rinuccini.
Di questa celeberrima opera lirica o favola in musica, come si diceva allora, ci rimane disgraziatamente soltanto il frammento del lamento di Arianna; ci consola, però, il fatto che questo lamento sia considerato uno dei capolavori del teatro occidentale di tutti i tempi. Conosciamo tutti il mito, cui s’ispira il libretto: Arianna, dopo essersi completamente messa in gioco per salvare l’uomo che ama (Teseo) — facendolo prima uscire indenne dal tremendo labirinto in cui era stato fatto rinchiudere da suo padre Minosse e poi fuggendo con lui verso Atene — si vede da lui ingannata e abbandonata a tradimento su di un’isola. Da questa situazione di totale desolazione e disperazione sgorga spontaneo quel lamento che è poi il culmine patetico dell’opera stessa e che, come attestano vari resoconti dell’epoca fu motivo di grande commozione per il pubblico.
Come già detto, quest’opera nasce con delle ambizioni molto chiare e non certo di portata trascurabile, forse anche per noi uomini e donne del ventunesimo secolo (sempre che si sia ancora disposti a farsi insegnare qualcosa dalla nostra grande cultura). Intanto cominciamo col dire che nel prologo dell’opera si dichiara la volontà di voler abbandonare la tragedia, con quel suo senso della virtù derivante da storie d’armi, e abbracciare il genere cosiddetto romanzo, e quindi un senso della virtù derivante da sole storie d’amore, com’è infatti il mito di Arianna narrato da Ovidio. Siamo dunque ad una vera e propria svolta epocale che mira a proporre un nuovo senso etico a corte, e il lamento di Arianna magistralmente intonato da Monteverdi ne è il portato musico-poetico—cioè, per parlarci chiaro, l’emozione pura veicolata dalla poesia e dalla musica che investe l’animo dello spettatore. Anche un rapido ascolto di questo lamento rivela, sì, la sofferenza e in generale la devastazione emozionale di questa donna innamorata e abbandonata, ma ne rivela anche, e direi in maniera ancora più pregnante, la grande dignità. Siamo dunque davanti all’incarnazione di un’eroina nuova che si lamenta intensamente e finanche impreca contro tutto e tutti, ma lo fa secondo le modalità e le forme ispirate ad una grande dignità morale, quella delle ovidiane Heroides, che il nostro Rinascimento aveva fatte sue. È quindi un’eroina non solo indignata, ma anche un’eroina con una grande spina dorsale. Ed è proprio questa virtù insita nel lamento di Arianna che, come ci ricorda il nostro Giovan Battista Marino nell’Adone, trasse “da mille cor mille sospiri” (VII,88); una virtù che, si noti bene, commuove addirittura un dio, il quale alla fine dell’opera viene a prendersi Arianna in sposa, trasformando così una tragedia annunciata in una grande tragicommedia…
Dicevo che tutto questo ha forse in serbo qualche motivo di riflessione anche per noi. Che la politica ci abbia tradito penso sia indubbio; che lamentarsi di questo sia legittimo è pacifico. Resta da vedere se il lamento che oggi si leva un po’ ovunque nel nostro paese saprà essere degno della spina dorsale di Arianna e della grande tradizione culturale cui esso è ispirato o se sarà semplicemente un altro dei molti debiti contratti con una cultura della lamentela che non ci appartiene. Intanto gustiamoci, alla prima occasione, quel che rimane di questo straordinario campione del made in Italy, e poi speriamo in bene.
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