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Società

POVERI E MALATI, ECCO LA SOFFERENZA

LUCA SPRIANO - 20/02/2014

In Africa ho lasciato un pezzo di cuore. E il ricordo di quell’esperienza, ogni tanto, mi emoziona ancora. Era la primavera del 2009. Da mesi covavo il desiderio di toccare con mano una realtà povera e piagata del pianeta. L’occasione me l’ha fornita un amico, Roberto, entrato in contatto con un missionario cuneese che opera nel Continente Nero, padre Francesco. Siamo partiti in tre (c’era anche Alberto) trascinando valige enormi colme di medicinali e vestiti da donare: destinazione Costa d’Avorio, Adzopé, lebbrosario Raoul Follereau. Ci siamo rimasti una settimana e mezza. Indimenticabile. Poi siamo tornati in Italia e grazie alla determinazione di Roberto, un uomo dal cuore grande, abbiamo fondato una onlus, “Le Pagne de Letizia”, per supportare malati e poveri di quella zona.

È bastato uscire in auto dall’aeroporto di Abidjan e avventurarsi nel traffico caotico della megalopoli in riva all’Oceano Atlantico per assaggiare la realtà ivoriana: un’ora e mezza a passo d’uomo, posti di blocco improvvisati da militari col mitra a tracolla, a bordo strada poveracci consumati dalla lebbra e nugoli di bimbi denutriti e sporchi che appena individuano un bianco bussano al finestrino della sua macchina, allungano la mano e lo fissano con occhi disperati sperando di strappare una moneta.

In Italia, ormai, non sappiamo più che cosa sia la lebbra. In Costa d’Avorio, purtroppo, è attualità malvagia. Un nemico feroce che aggredisce, corrode, deforma il corpo. All’istituto Follereau vengono curati i bambini affetti da questa patologia e dall’ulcera del Burulì, un mostro rassomigliante alla lebbra e ancora più terribile che si accanisce soprattutto sui più giovani scavandone le carni. Il primo giorno trascorso tra padiglioni e viali del lebbrosario mi ha svelato in tutta la sua crudezza le conseguenze della malattia: ho visto bambini amputati e segnati da piaghe tremende soffrire con fierezza durante le medicazioni. Per fortuna li ho visti anche ritrovare il sorriso. Impazzire di gioia per una caramella o per un palloncino regalato. Scrutare con curiosità l’uomo bianco. Studiarlo, fidarsi, giocare con lui, prenderlo in giro per la sua goffaggine e cercargli la mano per camminare insieme.

Prudenti e un po’ fifoni, i miei due compagni di viaggio ed io siamo partiti per l’Africa con la tranquillità di chi si è sottoposto a mille vaccini ma anche con l’incubo del Mamba Nero, serpente lunghissimo, fulmineo nei movimenti e dal veleno letale, che nel clima torrido e appiccicoso dell’Africa Occidentale trova l’habitat ideale. In realtà ne abbiamo poi avvistato un solo esemplare: era appeso davanti ad una capanna. Morto.

In Costa d’Avorio abbiamo distribuito medicine e vestiti, cercato di far sorridere i piccoli malati, stretto la mano ai lebbrosi. Accompagnati da padre Francesco (cappellano del lebbrosario dove operano anche le suore di Nostra Signora degli Apostoli) abbiamo macinato chilometri a bordo di un furgoncino sgangherato percorrendo strade in terra rossa disseminate di buche enormi ed immerse nella foresta. Siamo così riusciti a raggiungere gli abitanti di alcuni villaggi sperduti che vorremmo aiutare realizzando centri di primo soccorso, dispensari e scuole.

Ci sarebbero mille aneddoti da rispolverare, ne racconto un paio. Un giorno ci fermiamo in un piccolo villaggio sorto appena al di fuori del lebbrosario. Qui vivono le persone guarite dopo il ricovero ma rifiutate dalle famiglie d’origine: in Africa, infatti, la lebbra oltre a segnarti nel fisico ti trasforma per sempre in un reietto. Ci accordiamo con un responsabile della chiesa locale per distribuire magliette nuove agli abitanti senza creare problemi. Lui ci rassicura. Ma sbaglia. Appena iniziamo la consegna sbucano bimbi, donne e uomini da ogni dove. Si accalcano attorno a noi, spingono, sgomitano. In un attimo diventano folla. Interviene il responsabile del villaggio, spiega che ce n’è per tutti, chiede di stare tranquilli. Non serve. Non c’è modo di mettere ordine. La gente s’incattivisce temendo di rimanere a mani vuote, volano cinghiate, i bambini in braccio alle madri scoppiano a piangere. Abbiamo mezzo villaggio addosso, ci viene un po’ di paura. Su consiglio del ragazzo ivoriano che ci accompagna dobbiamo sospendere la distribuzione e ripartire alla svelta col furgoncino.

Altro giorno, altro episodio. Un anziano lebbroso mi sorride timidamente mentre mi incrocia camminando. Roberto è con me, lo ha già conosciuto in precedenza. Così si ferma, lo saluta, gli stringe la mano invitandomi con lo sguardo a comportarmi nello stesso modo. Lo faccio. E il volto del malato s’illumina. Quando quest’ultimo se ne va, Roberto mi spiega: “Malgrado la lebbra non si trasmetta per un semplice contatto, in Africa chi ne è affetto viene trattato come un appestato. Il fatto che qualcuno gli stringa la mano è importantissimo per i lebbrosi. Li fa sentire vivi”. Da quel giorno l’anziano mi ha puntualmente salutato con un sorriso smagliante iniziando a sbracciarsi a cinquanta metri di distanza.

In Costa d’Avorio mi sono arricchito. Interiormente, intendo. Ho conosciuto persone speciali che dell’aiuto al terzo mondo fanno una ragione di vita. Che vivono quotidianamente il dramma della povertà, della malattia, dell’emarginazione. Che si sbattono ogni santo giorno in condizioni estreme con una forza d’animo eccezionale. Li considero degli eroi. Penso che il loro esempio debba farci riflettere su quanto siano superficiali molte nostre paranoie e metterci in condizione di crescere. Nella testa e nel cuore.

Ho imparato molto anche dai bambini. E l’origine del nome della nostra ONLUS, “Le Pagne de Letizia”, è la migliore spiegazione a riguardo. Ecco la storia. Un giorno Roberto, durante la sua prima visita ad Adzopé, compra un grosso panno di pagne (tipico tessuto colorato utilizzato in Africa per confezionare abiti, tende, coperte, porte-enfant) da regalare alla madre di Letizia, una bambina di quattro anni e mezzo ospite del lebbrosario alla quale si è particolarmente affezionato. La piccola apprezza ma fa una richiesta strana: tagliare il pagne i tanti pezzi più piccoli. Viene accontentata. Bene, quando Roberto va a salutarla prima di tornare in Italia la trova insieme con gli altri bimbi ricoverati. E tutti hanno in testa, a mo’ di bandana, la stoffa che Roberto ha comprato per la mamma di Letizia. Condivisione e amicizia.

Quella volta io non c’ero: l’episodio accadde l’anno precedente al viaggio comune, me l’hanno raccontato. Mi è rimasto impresso con nitidezza, invece, l’addio vissuto in prima persona. Ricordo il momento in cui ce ne siamo andati. Ricordo che i bimbi ospiti del lebbrosario erano lì a salutarci. Ricordo che quando il pulmino è partito ci sono corsi dietro agitando le manine. Ricordo che quando mi sono voltato verso di loro ho pianto. Nascosto dietro gli occhiali da sole.

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