Divenni varesino qualche giorno dopo la mia nascita, quando i miei tornarono in città. La nostra abitazione si trovava in viale Belforte, al numero civico 88, nella immediata periferia, un tempo zona agricola.
Era situata a circa metà viale di fronte alla omonima trattoria, l’unica che potesse offrire ai suoi avventori il gioco delle bocce. Nei mesi caldi le partite si protraevano fino a notte inoltrata e dal mio letto ne sentivo i rumori, il conteggio dei punti ad alta voce, le risate, le bestemmie, i coloriti apprezzamenti in dialetto e le interminabili discussioni che seguivano la fine del gioco, quando si trattava di pagare il bevuto.
Il mezzo pubblico che ci univa alla città era il tram il cui rumore si percepiva subito dopo la fermata delle case popolari di Biumo Inferiore, da una parte, o sulla discesa del “ castello ” dall’altra che, prima dell’intervento di recupero del 2007, era divenuto un penoso cumulo di rovine.
Era così che orgogliosamente Varese si presentava a chi proveniva dal vicino valico svizzero mostrando l’ammirevole interesse con cui gli esponenti politici della città si erano prodigati per il recupero della storica costruzione in cui, è certo, soggiornò il Barbarossa e dove il nobile Biumi fece erigere il suo affascinante palazzo rimasto incompiuto.
Il “tram dei morti” era quasi sempre vuoto salvo le ore di rientro dal lavoro degli abitanti della zona. Contrariamente era preso d’assalto e ornato di fiori durante il periodo delle festività dedicate ai defunti. Talvolta veniva utilizzato per trasportare le salme all’ultima dimora come si verificò nel 1919 quando, equipaggiato con un rimorchio, fu impiegato per il trasporto di decine e decine di morti, vittime della “spagnola”. Da ciò il motivo di quella funebre definizione.
Il 2 dicembre 1950 il bianco tram N.4 “Bobbiate – Varese – Belforte” dopo un onorevole, ininterrotto, servizio di 34 anni terminò le corse. La circolazione su quel viale, quando nel 1947 avevo dieci anni, era prevalentemente costituita da biciclette e motocicli. Rare erano le auto. L’illuminazione pubblica contemplava pochi lampioni le cui lampade erano il bersaglio preferito dalle temibili fionde dei giovinastri di quel tempo che venivano costruite utilizzando le camere d’aria, tagliate a liste per lungo, divenute irreparabili per le biciclette e legate ad una robusta forcella di legno rimediata dalle piante dei boschi vicini.
Il piazzale, che a metà del viale oggi accoglie una filiale automobilistica, ospitava un piccolo distributore di benzina la cui pompa, attraverso una leva esterna, veniva manualmente mossa dall’addetto alla stazione. Dalla parte opposta, oltre i binari del tram, vi era la recinzione metallica di una fattoria che si estendeva fino alle immediate vicinanze della fabbrica di biciclette “Ganna”, storico marchio della nostra città.
Un grosso caseggiato di campagna situato sul fondo del podere era abitato dai coniugi L. con i loro tre figli. Il maggiore, mio compagno di scuola alle elementari, dimostrava qualche anno di più della sua età. Quando lo andavo a trovare per aggiornarlo sulle lezioni alle quali era mancato era sempre intento al lavoro. Nella stalla ad accudire agli animali o affaccendato in campagna. Non divenne mai mio compagno di giochi. Non ne aveva il tempo. Doveva lavorare “per riparare al tempo perso per la scuola”, mi dicevano i suoi genitori in un dialetto lombardo – veneto che il più delle volte stentavo a capire. Era facile intuire che gran parte delle sue assenze erano dettate da esigenze familiari.
I suoi genitori erano persone umili e gentili e ogniqualvolta mi recavo da loro mi regalavano qualche frutto, se la stagione lo permetteva, oppure mi offrivano un bicchiere di latte prodotto dalle loro mucche. La sua presenza a scuola non poteva passare inosservata perché era sempre accompagnato da quell’odore acre di stalla che velocemente saturava tutta l’aula. E sicuramente quello era il motivo per cui era stato isolato all’ultimo banco, da solo. Di quella discriminazione non se ne faceva un problema, anzi, stava bene così. Abituato agli spazi ne sentiva bisogno anche a scuola. Aveva a disposizione tutto il banco per sistemare ciò che si portava da casa.
Terminate le elementari non ebbi più l’occasione di incontrarlo. La fattoria rimase ancora per qualche tempo, poi cessò ogni attività. Ed il viale, un poco alla volta, divenne un cantiere. Le sedie per il pubblico, sempre numeroso, venivano procurate presso la chiesa del Lazzaretto, al termine della recita serale del Santo Rosario nel mese di maggio, affidata alle cure di Don Rino, il piccolo e magro Padre preposto alla salvezza delle “anime rosse” dei belfortesi.
Il loro trasporto veniva effettuato con un carro trainato da buoi il cui proprietario, che ancora nel 1998 conduceva una piccola attività agricola presso ciò che rimaneva del vecchio castello, garantiva l’ingresso gratuito allo spettacolo a chi l’avesse aiutato nell’impresa.
Un paio d’anni dopo anche lui abbandonò il vecchio castello.
Da “Varese e Cuvio – anni ‘40” di Giovanni Zappalà, Macchione, 2009
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