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Spettacoli

IL TALENTO SEPOLTO

MANIGLIO BOTTI - 14/02/2014

La notizia della morte di Philip Seymour Hoffman, talentuoso attore americano – suo il premio Oscar del 2006 come miglior attore protagonista nel ruolo di Truman Capote nel film “A sangue freddo” –, ci ha fatto precipitare nell’amarezza. Una morte per droga, l’ultima purtroppo di una serie sconcertante di grandi divi del cinema intelligenti e bravi oltremisura ma così fragili da non essere capaci di superare le angosce dell’esistenza, del vivere insomma, anche quando il successo, la fama, il denaro dovrebbero rendere tutto più facile; o forse proprio per questo. Stroncato da un’overdose: l’ago di una siringa ancora infilato nel braccio; il corpo steso sul pavimento del bagno; e accanto bustine probabilmente contenenti eroina. Così ha scritto il Corriere della Sera l’altra settimana; così è stato trovato nella sua casa di Manhattan Philip Seymour Hoffman.

Non ancora cinquantenne – Hoffman avrebbe compiuto quarantasette anni il prossimo 31 luglio – poteva vantare un curriculum di più di cinquanta film dal 1991 a oggi e con la conquista di un Oscar, s’è detto, già posto sugli scaffali della sua libreria otto anni fa, e di altri numerosissimi riconoscimenti (solo per quanto riguarda gli Academy Awards si dovrebbero citare le nomination in “La guerra di Charlie Wilson” (Charlie Wilson’s War, di Mike Nichols, 2007); “Il dubbio” (Doubt, di John Patrick Shanley, 2008) e “The Master”, 2012, di Thomas Anderson.

Non aveva quel che si dice un “fisicaccio”, né perciò gli si addicevano parti da Rambo o da amatore, ma in ogni interpretazione il suo disincanto, la fine ironia che si percepiva nello sguardo, sempre, anche quando non era manifesta del personaggio, lasciavano il segno. Sarebbero tante le interpretazioni per le quali andrebbe ricordato: ci piace citare, tra quelle già indicate, la parte del cattivo Davian in “Mission: Impossible III”, di J.J. Abrams, 2006, dove contende all’agente speciale Ethan Hunt-Tom Cruise il recupero di un misterioso codice che gli darebbe la possibilità, poi, di accedere a un’arma micidiale; la parte del Conte in “I Love Radio Rock” (The Boat That Rocked, di Richard Curtis, 2009), qui sì ricca di disincanto, e quella, altrettanto magistrale nel tratteggiare personaggi legati al mondo della politica americana, del capufficio stampa Paul Zara nel film di George Clooney “Le idi di marzo” (The Ides of March, 2011), passato in Tv a mo’ di commemorazione dell’attore dopo la sua prematura e inopinata scomparsa.

La morte di Philip Seymour Hoffman ci riporta in un tourbillon di tristezze, e lasciando da parte il mondo della musica, anch’esso spesso colpito da tali vicende, al gennaio di sei anni fa, quando più o meno in circostanze simili fu scoperto, sempre a New York, in un appartamento del quartiere di Soho, il corpo ormai cadavere di un altro bravo attore: Heath Ledger, 28 anni, uno dei giovanissimi protagonisti di “Il patriota” (The Patriot, di Roland Emmerich, 2000), il film che – di lui promettente ma ancora sconosciuto attore autrialiano – ne aveva sancito la fortuna, ma soprattutto, qualche anno dopo, il coprotagonista con Jake Gyllenhaal di “I segreti di Brokeback Mountain” (Brokeback Mountain, di Ang Lee, 2005), la trasgressiva, personale e solitaria storia di due cowboy che si fanno travolgere da una passione omosessuale: film difficile, importante, premiatissimo, che più di tante esibizionistiche manifestazioni di Gay-Pride, se non altro, ha giovato alla sensibilità umana e alla tolleranza.

Oppure, risalendo nel tempo a più di trent’anni fa – al marzo del 1982 –, al giorno in cui in un albergo di Hollywood fu trovato morto, anch’egli vittima di un’overdose e probabilmente di un eccesso di alcolici, John Belushi. Un genio della recitazione, un volto che rimarrà per sempre nell’immaginario – e chi ama il cinema e due film-cult e ormai leggendari come “Animal House” (National Lampoon’s Animal House, 1978) e “The Blues Brothers”, 1980, tutti e due di John Landis – non potrebbe non essere d’accordo. Belushi, al momento del decesso, aveva da poco compiuto trentatré anni. È stato ed è – prendendo com’è ovvio con una certa approssimazione la similitudine – lo “svitato” ma vero e genuino James Dean degli anni Settanta e Ottanta del Novecento.

Non sono queste né celebrazioni né inni a personaggi del cinema che percorrono una via diretta, e tortuosa allo stesso tempo, ma molto molto triste per ritagliarsi uno spicchio di gloria perenne. Soltanto da noi ingiudicabili constatazioni di uomini – e non attori – che avendo ricevuto in dono talenti preziosi li hanno voluti seppellire per restituirli intatti, e purtroppo infruttuosi.

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