Un velo di mistero copre ancora il massacro dei duemila soldati e ufficiali italiani compiuto per mano tedesca a Leopoli in Ucraina dopo l’8 settembre del ’43. Vivono solo rare testimonianze e resoconti giornalistici ma la verità, malgrado nel 1987 fosse stata disposta dal Ministro della Difesa Giovanni Spadolini una Commissione Ministeriale che risolvesse il drammatico interrogativo, non è stata raggiunta.
Oggi a dieci anni dalla scomparsa di Nuto Revelli (1919-2004), ufficiale degli alpini sul fronte russo, comandante partigiano di “Giustizia e Libertà” nel Cuneese, autore indimenticabile di Mai tardi, La strada del Davai, Il mondo dei vinti, L’anello forte, la Fondazione intitolata al suo nome diretta dal figlio Marco, da Antonella Tarpino e da Beatrice Verri, rinnova la domanda irrisolta prendendo spunto dalla Relazione di minoranza formata dallo stesso Revelli, Lucio Ceva e Mario Rigoni Stern, in assoluto dissenso con le conclusioni della Relazione di maggioranza che nel 1988 affermò che a Leopoli, dove era di stanza il Comando logistico dell’ARMIR (il Corpo di spedizione in Unione Sovietica), non avvenne alcun eccidio.
Una conclusione che aveva lasciato interdetto Nuto Revelli e i suoi compagni e che riproponeva il clima e lo scenario del famoso “Armadio della vergogna” che nel primo dopoguerra, malgrado numerose inchieste italiane e alleate sui massacri nazifascisti in Italia fossero state istruite e concluse con l’indicazioni dei colpevoli, vennero chiuse con la stravagante formula da parte del Procuratore Generale Militare dell’ “archiviazione provvisoria”, inesistente nel sistema giudiziario italiano.
Ragioni di Stato, compromessi internazionali, interesse a non mettere in cattiva luce il soldato tedesco mentre – erano gli anni ’50 – la Germania rappresentava il baluardo reale contro la propagandata invasione sovietica dell’Europa. Meglio chiudere tutto nel cassetto. Gli italiani non processavano i tedeschi e l’Europa occidentale faceva finta di ignorare i crimini fascisti sui vari fronti di guerra, lasciando tranquilli i vari Roatta, Graziani, Pirzio Biroli, Cortese, Gambara, Galbiati, Messe, ecc ecc.
Con lo stesso ragionamento strumentale era finita molti anni dopo nel cassetto anche la mattanza nazista di Leopoli. Chiuso il fascicolo, non se ne parlò più. L’esito dei lavori della Commissione Spadolini amareggiò Revelli che un anno dopo al programma culturale di Rai 3 “Antologia” allo storico Mario Isnenghi dichiarò: “Tu sai come quell’esperienza mi bruci ancora. Mi è stato rinfacciato non una ma cinquanta volte che mi manca il distacco storico e che sarei quindi uno storico un po’ così, sui generis. Io invece sostengo che proprio coloro che mi incolpavano di non avere distacco storico, erano troppo distaccati, erano lontani dagli avvenimenti di guerra addirittura da angosciarmi, da spaventarmi”.
Ora, accanto ai testi trascritti di “Antologia”, a riproporre la terribile avventura di Leopoli e a rimarcare gli interrogativi di quella strage, ci sono gli appunti inediti che Nuto Revelli redasse il 15 maggio 1987 in preparazione ad una conferenza svoltasi a Monta d’Alba per contrastare, carte alla mano, le argomentazioni del professor Romain Rainero, co-redattore della relazione di maggioranza che, in violazione ai patti assunti, aveva reso dichiarazioni all’emittente tv Canale 5. Rainero aveva sostenuto che la Commissione aveva avuto una visione unanime su Leopoli il che non rispondeva al vero. Uno dei punti discussi era l’inesistenza per la maggioranza di un Comando Retrovie Est che Revelli e Rigoni Stern avevano confermato fosse esistito. Una premessa che era servita come grimaldello per negare la strage.
Il Comando era esistito e aveva amministrato – dichiarazioni “dal basso” di soldati italiani non tenute in considerazione – migliaia di uomini quale supporto logistico della 8a Armata. Fu scoperta inoltre l’esistenza di una Compagnia Presidiaria, la 63a, di cui non si è mai potuto appurare la fine. Semplicemente scomparsa. Sarebbe stato presente inoltre il 350° Autoreparto di Balta (Ucraina) anch’esso volatilizzatosi.
L’appunto di Revelli si chiude con una riflessione che lascia del tutto aperto il dramma di Leopoli, affidando la soluzione agli studiosi sinora poco inclini a considerare le testimonianze di chi c’era, della povera disperata truppa gettata allo sbaraglio: “Sia ben chiaro! Una cosa è il disastro dell’ARMIR ed un’altra è il dopo-disastro, con delle frange dimenticate o disperse. E un’altra cosa ancora è l’8 settembre e il dopo-8 settembre quarant’anni dopo”.
Il riordino delle carte Revelli è in fase conclusiva. Sarebbe il caso che qualche Procura Militare (ora ridotte all’osso) riapra il caso.
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