In una canzone non conosciutissima ma molto, molto bella di una trentina di anni fa – Verona beat – i Gatti di Vicolo Miracoli (Umberto Smaila, 1950; Jerry Calà, 1951; Franco Oppini, 1950; Nini Salerno, 1948 e – agli inizi – anche Gianandrea Gazzola, 1948) fanno un affresco di ciò che era la vita in una cittadina di provincia, nel caso Verona, tra il 1966 e il 1969. L’età dei “firmatari” di quel brano autobiografico ci indica che, all’epoca, erano tutti studenti di liceo, cosa che esce subito dai versi: “Vecchie favole / di un’epoca un po’ più in là / colori di un’età… / L’automobile / beato chi già ce l’ha / è quella di papà / Oggi è sabato domani si dormirà / sogni di gloria… / Fughe inutili per vedere se ci sei tu / ginnastica in tuta blu… / Oggi in sciopero / per la fame nel Bangla Desh / dopo un’ora si resta in tre…”. E avanti così sull’onda dei ricordi; straordinaria canzonetta.
La seconda strofa o il secondo tocco di affresco di dieci o dodici che tratteggiano la canzone tutta dedicata agli anni del beat – il beat all’italiana, però – ci dà anche l’idea di una scelta: “Libri e musica / di un mondo che nasce beat / un disco dell’Equipe…”.
L’Equipe 84, appunto. I complessi, i gruppi musicali che in quegli anni si formarono in Italia, ovvio sulla scia dei Beatles e dei Rolling Stones, erano centinaia. Una decina di loro raggiunsero il grande successo. E tra questi due sopra tutti: l’Equipe 84 e i Nomadi. Due gruppi che partivano dalla stessa città – Modena –, un’altra città di provincia, come si diceva: perché il beat si diffuse nelle due metropoli, Milano e Roma (in particolare Milano, commercialmente parlando), ma ebbe nella provincia, nelle periferie il suo sviluppo: nelle speranze e nei sogni di coloro che le abitavano.
Capelli lunghi e chitarra a tracolla, come chiedeva la moda. Il grande Celentano, che ha elaborato tutto un suo sistema filosofico – mediatico dell’essere rock o lento (meglio il rock per il Molleggiato, naturalmente) nel 1967 – l’anno d’oro del beat italiano – editò un disco con l’etichetta Clan, “Tre passi avanti”. La parte cantata e in musica era preceduta da una lettera, che Celentano recitava e che va riletta: “Caro Beat, mi piaci tanto, sei forte perché hai portato oltre alla musica dei bellissimi colori che danno una nota di allegria in questo mondo pieno di nebbia. Però se i ragazzi che non si lavano, quelli che scappano di casa, e altri che si drogano e dimenticano Dio fanno parte del tuo mondo, o cambi nome o presto finirai…”. Poi via col canto: “Tre passi avanti e crolla il mondo beat…”.
Certo, problemi ce n’erano ma il Beat resistette, ed era un’altra cosa: era la vita. E non è mai crollato. Celentano si dimostrò rock come sempre ma, stavolta, anche lentissimo.
Non è che quella dell’Adriano fosse una voce che gridava nel deserto. Al Cantagiro del 1966 ci fu un settore dedicato ai complessi. Si affermò l’Equipe 84 e c’erano i più famosi del momento: i Nomadi, e poi i Rokes, i Corvi, i Camaleonti, i New Dada, Ricky Shayne… Ma quando passavano le auto dei cantanti si doveva battagliare. Agli applausi e ai complimenti si accompagnava anche qualche cenno di dissenso. Victor Sogliani, uno dei fondatori dell’Equipe (è scomparso nel ’95 all’età di cinquantatre anni), suonava il basso ed era… un gigante. Hanno scritto alcuni cronisti dell’epoca: Victor fermava la macchina e scendeva. Aveva le mani come due badili.
L’Equipe e i Nomadi, un imprinting modenese. È singolare che dietro i due gruppi ci fosse – spesso – un unico ispiratore, Francesco Guccini, anch’egli di Modena, molto amico di Sogliani e anche di Alfio Cantarella, il batterista dell’Equipe 84 con il quale aveva abitato a Bologna negli anni canaglieschi e avventurosi degli inizi. Guccini scrisse canzoni per l’uno e per l’altro gruppo: Auschwitz, nel 1966, per l’Equipe; Dio è morto, nel 1967, per i Nomadi. Ma – è una sensazione – i suoi preferiti erano i Nomadi, più vicini da un punto di vista culturale e, per prenderla un po’ più alla larga, anche politico. Già negli anni Settanta i gruppi cominciarono a disgregarsi. L’Equipe, che aveva dato il nome anche a una linea di moda – famoso, in quel periodo, un cappotto in stile napoleonico indossato dall’attore francese Pierre Clémenti (1942-1999) nel film Bella di giorno – cedette per prima; e poi via via gli altri, nonostante in qualche modo si cercasse di tenere vivi marchi e stile con neonate formazioni.
Quasi tutti i componenti dei gruppi musicali sorti come funghi alla metà degli anni Sessanta appartengono a una generazione che si potrebbe forse definire “presessantottina”; i Gatti di Vicolo Miracoli, più giovani di quattro, cinque anni, sarebbero invece dei fruitori, degli “utilizzatori finali” di quei prodotti. È per questa ragione che la loro Verona beat si presenta come una canzone dei tempi andati, quando i dischi dell’Equipe e dei Nomadi si ascoltavano alla radio o nei juke-box, più di rado in tv. Si cantavano, se ne parlava. “Beat Beat cos’era il Beat / una scuola e una città / Beat Beat Verona Beat …”. E come non pensare a una trasposizione varesina? alle vasche sotto i portici di corso Matteotti?: “Beat Beat Varese Beat / pugno in tasca e vanità…”.
Ma anche le strade dei Gatti, sul finire degli anni Ottanta, presero direzioni diverse. Jerry Calà, per esempio, si indirizzò verso il cinema in via Solitaria. Umberto Smaila – il raffinato e riconoscibile musicista di Verona beat, ma anche del tema del film Soldati – 365 all’alba di Marco Risi – lo si vedeva al pianoforte nelle tv commerciali e in show un po’ leggerini, a suonare brani in tenuta da yacht man. Il beat, forse, era soltanto un ricordo. Come i sogni.
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