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Storia

TRE VARESINI E LA FUCILAZIONE DI CIANO

FRANCO GIANNANTONI - 06/02/2014

Galeazzo Ciano al processo di Verona nel 1944 con gli altri imputati

Gennaio 1944. Settant’anni fa. Tre varesini, in ruoli e momenti diversi, furono al centro di una delle pagine più tragiche del fascismo repubblicano, la fucilazione di Galeazzo Ciano. Il genero di Mussolini, accusato di “tradimento dell’Idea” con altri diciotto gerarchi, aveva votato a favore “dell’ordine del giorno Grandi” che il 25 luglio 1943 aveva portato alla caduta del duce del fascismo e al suo arresto per ordine del re Vittorio Emanuele III.

Il primo dei tre personaggi é Celso Riva, sessant’anni, sansepolcrista, operaio metallurgico, sindacalista, presidente del Consorzio Ittico di Varese, un omone, vissuto sempre all’ombra del partito, che seppe per radio nel novembre del ‘43 di essere stato nominato giudice del Tribunale Speciale Straordinario di Verona incaricato di giudicare con Ciano altri cinque gerarchi, perché i rimanenti, a cominciare da Dino Grandi, erano fuggiti raggiungendo il Sud America o il sud dell’Italia o chi, come il raffinato e colto Giuseppe Bottai, la Legione Straniera.

Celso Riva aveva avuto l’onore, si fa per dire, di far parte di quella macchina di morte per aver perso il figlio Luigi in uno scontro presso Torino contro i partigiani. L’organo giudicante del gruppo traditore doveva comprendere, nella logica corporativa, rappresentanti dell’intera società fascista e così accanto al presidente l’avvocato Aldo Vecchini, erano stati prescelti il generale Renzo Montagna per le forze armate, Domenico Mittiga, Giovanni Ricci, Vito Casteluovo, lo squadrista Enrico Vezzalini (il più inflessibile), Otello Gaddi per gli altri settori e, appunto lui, Celso Riva che a Varese aveva avuto un solo momento di celebrità per una fotografia apparsa su “Cronaca Prealpina” scattata davanti al Palazzo Littorio in compagnia del seniore della Milizia Leopoldo Gagliardi, futuro comandante della brigata nera.

Riva non aveva saputo dire di no e aveva accettato la chiamata per onorare la memoria del figlio morto per la Patria. Il 7 gennaio si era affacciato in cancelleria a Verona e il funzionario Tommaso Lemadito aveva provveduto a ufficializzare la presenza. Con sé aveva portato una valigetta, con il necessaire, un paio di camicie, la biancheria intima. Non il codice penale di cui ignorava certo il contenuto e comunque inutile dal momento che la sentenza di morte era già nei fatti, ribadita dal pubblico accusatore Andrea Fortunato che aveva terminato la requisitoria con il celebre motto “Così ho dato le vostre teste alla Storia. Fosse anche la mia, purché l’Italia viva!”.

Le udienze nell’aula della musica di Castelvecchio sullo sfondo di un drappo nero con il simbolo in rosso del fascio repubblicano e accanto un piccolo crocifisso, erano state una farsa tra lo schiamazzare degli squadristi accorsi da ogni paese. Per cinque imputati era giunta la condanna a morte: il bel Galeazzo marito di Edda, l’amata primogenita del duce, Carlo Pareschi, il maresciallo d’Italia Emilio De Bono, il tremolante Giovanni Marinelli, Luciano Gottardi. Si era salvato Tullio Cianetti, il ministro delle Corporazioni, condannato a trent’anni per aver scritto dopo il voto contro Mussolini una lettera in cui si rimangiava la decisione.

Celso Riva, avvicinato dalle mogli di Gottardi e Cianetti, per offrire un suo apporto alla salvezza dei rispettivi mariti, si era dato da fare con generosità ma come prevedibile senza risultati.

Il 26 aprile del ’45, a guerra finita, Celso Riva, arrestato mentre passeggiava per le vie del centro, era stato affidato dal CLN di Varese alla giustizia. La Corte d’Assise Straordinaria della città, presieduta dal giudice Alberto Zoppi, lo aveva condannato a dieci anni di reclusione. La motivazione della sentenza aveva rivelato il vero volto di un “giudice per accettazione cosciente e volontaria sebbene non spontanea”, “un parassita, ignorante, incline all’ozio e al piacere se pur non al male”. Gli erano state riconosciute le attenuanti “per essersi adoperato davanti alle suppliche delle mogli di due gerarchi per scongiurare la condanna, sollecitando la necessità di un’ulteriore istruttoria”. Alla lettura del verdetto (il PM Bacchetta aveva chiesto trent’anni) Riva si era accasciato abbandonandosi al pianto. L’amnistia Togliatti della generosa Repubblica il 19 agosto 1946 lo avrebbe rimesso in libertà.

Se l’11 gennaio 1944 Galeazzo Ciano era stato giustiziato al Poligono di Tiro di Porta Catena dal plotone di Nicola Furlotti, tre giorni prima, l’8 gennaio, due altre varesini avevano concorso a definire, questa volta in una luce positiva, la scena della tragedia. Il primo era stato il dottor Camillo Riva, proprietario con il padre dottor Antonio della Casa di Cura “La Quiete”. Il secondo era stato don Angelo Griffanti di Cantello, antifascista, insegnante all’Arcivescovile di Tradate.

Il dottor Camillo Riva, svizzero di cittadinanza talché la Casa di Cura nella voce popolare si era detto godesse di una sorta di inviolabile “extraterritorialità” (da qui la presenza di molti clienti ebrei), aveva favorito il 7 gennaio un incontro clandestino fra Edda Mussolini Ciano in fuga da Verona con i preziosi Diari del marito con alle calcagna le SS e la polizia fascista, e la suocera contessa Carolina Ciano ospite della Casa di Cura e in attesa di rifugiarsi oltre frontiera, impresa che dopo un paio di tentativi falliti, le sarebbe riuscita. Il colloquio fra le due donne era stato caloroso e purtroppo breve, poi Edda Ciano Mussolini si era diretta a Cantello dove con l’amico, lo stilista Emilio Pucci, aveva pernottato sotto le false generalità di Emilia Santos all’Albergo “La Madonnina”.

All’alba dell’8 gennaio aiutata dalla “rete” di don Angelo Griffanti era riuscita a passare in Svizzera nella boscaglia fra Gaggiolo e Rodero, raggiungendo i figlioletti Ciccino, Dindina, Marzio riparati qualche giorno prima. Se per Edda Ciano l’impresa era riuscita, nei confronti di don Griffanti, di don Giovanni Bolgeri, parroco di Saltrio, e di don Gilberto Pozzi, parroco di Clivio, componenti della “rete” erano scattate le manette. Arrestati, dopo il carcere di San Vittore a Milano, erano stati affidati dal generale Rodolfo Graziani, ministro della Difesa della RSI al cardinale Ildefonso Schuster che li aveva messi “a riposo” fino al termine della guerra nell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone già zeppo di sacerdoti che avevano vissuto la stessa esperienza di solidarietà.

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