Alla morte di Ariel Sharon, statista portatore di luci e di ombre, qualcuno ha affermato che “se non avesse vissuto gli ultimi lunghi otto anni della sua vita in coma, avrebbe potuto condurre in porto le trattative per la pace tra israeliani e palestinesi”. Un’ipotesi che, secondo le regole della sintassi, appartiene al periodo ipotetico del terzo tipo ed esprime l’idea di “impossibilità nel passato”. Per analogia, mi è tornata alla mente un’altra “proposta” di pace, vista di recente nel bel film “Il figlio dell’altra”.
Una donna israeliana, medico, scopre casualmente che il gruppo sanguigno del figlio, quasi diciottenne, è incompatibile con il proprio e con quello del marito. Impossibile! Lei e il marito si amano, si sono sempre amati, il figlio “è” certamente dei suoi genitori. Le ricerche anamnestiche danno un esito sconcertante: il ragazzo, nato nella notte di un furioso bombardamento, che comportò l’evacuazione dell’ospedale, a causa della grande confusione, fu scambiato con il bimbo partorito lo stesso giorno da una donna palestinese, temporaneamente presente in quella città israeliana per una visita a parenti.
C’è il ragazzo della coppia israeliana, figlio biologico della donna palestinese. E che reca in sé un bel destino, il futuro sognato dai suoi benestanti genitori israeliani, felici nella loro ricca abitazione dei quartieri alti della città. Al di là dei check point che dividono i territori di Israele dalla striscia di Gaza vive l’altro, il palestinese, figlio biologico della coppia israeliana, immerso nella situazione di emarginazione e di difficoltà tipica dei territori occupati, cresciuto con la consapevolezza di dover lottare al fianco della sua gente per restituirle dignità e diritti.
Esistenze scambiate: quelle dei due ragazzi, quella delle loro famiglie, quella, più ampia, di due popoli divisi da decenni di lotte e di rancori.
In primo piano c’è il dolore delle due madri che hanno perso il proprio figlio biologico e si sono ritrovate ad amarne e a crescerne un altro: il figlio di un’altra. Un dolore che si stempera presto nell’amore che viene spontaneo per il proprio figlio naturale, il bambino mai accarezzato, quello mai visto crescere. Le due donne passano dallo sconcerto per la terribile scoperta al desiderio di estendere l’affetto all’altro figlio; istintivamente ma profondamente mostrano come l’amore materno non ha confini e rende facile amare l’uno e l’altro.
Sono i padri, invece, che nella logica del codice cinematografico rappresentano la società, la politica, il mondo esterno, si ritrovano distrutti dalla fatica di cercare una possibile soluzione. Perché quella che invece sarebbe parso logico in apparenza, cioè scambiarsi i figli per riprendersi ciascuno il proprio, è qualcosa che va contro le leggi del cuore. Improponibile dunque allontanare da sé un figlio amato per diciotto anni solo perché “partorito” da un’altra donna, per riprendere con sé, come “vero”, solo l’altro, cresciuto in una famiglia diversa in tutto. Giungeranno anche i padri, aiutati dai giovani e dalle mogli, ad accettare la nuova realtà.
Il film è una evidente metafora dell’annoso conflitto israelo – palestinese ma non propone alcuna suddivisione in buoni e cattivi. Presenta due famiglie con un doloroso dramma da affrontare.
La regista francese Lorraine Levy, di origine ebraica, ci propone una propria soluzione. Le due famiglie diventeranno amiche, avendo in comune l’amore per i due ragazzi, i quali avranno infine quattro genitori ciascuno, quelli naturali e quelli adottivi: una famiglia nuova, più grande.
Ogni donna presente in sala, credo, avrà pensato, come me, che quei due figli anche lei li avrebbe amati entrambi, senza alcun dubbio. Più realisti gli uomini, mi pare, rimasti aggrappati al fatto che si trattava di una bella storia ma pur sempre di un film.
Ecco come sarebbe facile ottenere una pace altrimenti impossibile.
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