“Un giorno mi venne in mente che, se si volesse schiacciare, annichilire totalmente un uomo, infliggergli la più terribile delle punizioni, una punizione tale da far inorridire, da atterrire il più feroce assassino, basterebbe infondere al suo lavoro un carattere di perfetta inutilità e di assoluta assurdità. Se i lavori forzati, così come son oggi, riescono privi di interesse ed uggiosi per gli ergastolani, essi hanno tuttavia, come lavori in sé, una loro ragion d’essere, non sono assurdi: il forzato fabbrica mattoni, scava la terra, dà l’intonaco, costruisce: tutti lavori che hanno un senso e uno scopo. (…) Ma si obblighi, per esempio, a versar acqua da una tinozza in un’altra, e da questa in quella, a pestar la sabbia, a trasportare un mucchio di terra da un posto all’altro, e poi di nuovo a quello, e così via, continuamente: credo che in capo a qualche tempo il disgraziato finirebbe per appiccarsi, o commettere delitti su delitti, tanto da poter essere messo a morte, questa essendo molto preferibile a quello stato di umiliazione, di avvilimento, di sofferenza.”
Questo scriveva Fëdor Dostoevskij nel 1821 raccontando ne “I sepolti vivi – scene della casa morta” a proposito della sua prigionia in un gulag siberiano zarista.
“Nell’agosto del 1938, nel campo di concentramento di Dachau, Jura Soyfer e io dovemmo caricare per una settimana intera una carriola di sacchi di cemento, che stavano accatastati all’esterno del lager. Successivamente dovevamo portare la carriola dentro il lager e scaricarla di nuovo. Quindi abbiamo attraversato la porta d’ingresso del lager fino a trenta volte al giorno. Un giorno – era, credo, il terzo o quarto giorno – dissi a Jura, che stava facendo il mio stesso lavoro: ‘Lo sai, quella scritta sulla porta, ‘Arbeit macht frei’, è veramente una presa in giro..”
Questo raccontava Herbert Zipper a proposito della sua vita a Dachau. A questo pensavo sbuffando e sudando sotto un bel sole di inizio estate qui, a Varese, mentre trasportavo una carriola di beole nel mio giardino per allestire un muretto ornamentale da guarnire con rose e lavande. Cosa ho provato? Vergogna? Senso improvviso di leggerezza, visto l’obbiettivo del mio compito? Anna Frank scriveva che non la consolava la sua effimera sicurezza pensando alla sorte di tanti altri; era la sua realtà concreta di individuo che la obbligava a riflettere su quello che accadeva. A cosa serve la storia? A smettere di sbuffare e ringraziare di non vivere a quell’epoca? Ma quale epoca? Più di cento anni separano il gulag di Dostoevskij da Dachau, e allora dobbiamo pensare che Caino non morirà mai, che la cattiveria umana cova sotto la cenere per anni e prima o poi trasforma le riflessioni di una mente altissima come quella dell’autore de “L’idiota” (forse comunque incredulo che un simile obbiettivo potesse essere perseguito da altri in un lontano futuro), concepite all’ombra di un’oppressione già inimmaginabile, in un programma di sterminio dai connotati di perfetta logica ed efficienza? Dobbiamo trasformare la memoria in una celebrazione da sacralizzare (o desacralizzare?) come accade a tutte le feste comandate? Dobbiamo dare dell’aguzzino al nostro capo e al suo modo di renderci la vita impossibile, bersagli del suo mobbing?
O possiamo cogliere la lettura della storia come risorsa per drizzare le orecchie, aguzzare lo sguardo verso la nostra coscienza, la nostra idea di gerarchia di uomini e valori? Basta, non mi sento di dire altro, ben altre parole hanno preceduto le mie, ma ogni volta che le ascolto smetto di sbuffare e sudare, mi vergogno di quello che sono e che penso, e provo (ma domani sarò lo stesso) ad essere un po’ diverso.
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