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Che effetto fa ai varesini vedere la loro città fare da sfondo a numerose scene de Il capitale umano di Paolo Virzì? Si saranno chiesti perché è venuto a girarlo proprio qui e perché c’è questa strana confusione giornalistica con la Brianza? Prima di dare qualche risposta è opportuno un chiarimento: il film è ambientato nei sobborghi che da nord di Milano si estendono fino alle Prealpi e non in Brianza, come sostengono quasi tutte le descrizioni giornalistiche. Sono ambiti solo in parte coincidenti con il concetto geografico di quella sub-regione e d’altra parte, sul versante narrativo, al regista interessava trovare un corrispettivo del Connecticut, dove è ambientato l’omonimo libro di Stephen Amidon piuttosto che descrivere un territorio particolare.
A proposito delle numerose scene girate a Varese il regista ha dichiarato nel corso di un’intervista (Il Corriere di Como, Virzì: «Como giusta per il mio noir»): Varese è un po’ americana e tutto questo ci ispirava molto rispetto a Como, che è invece vista come un luogo di villeggiatura dove George Clooney ha passato le sue vacanze in moto con Elisabetta Canalis. Virzì chiarisce che aveva pensato al paesaggio lombardo innevato, a lui così estraneo, come alla trasposizione italiana ideale del libro nel film.
Non c’è stata quindi nessuna pretesa di descrivere le caratteristiche dei luoghi dove il film è stato girato, ha solo trovato lo scenario giusto di un immaginario Connecticut italiano. E ci è riuscito benissimo, a partire dalla messa in scena dell’ordinaria suburbanità di quei luoghi, aspetto che ha irritato i difensori di una presunta identità brianzola. Tuttavia bastava aver letto Carlo Emilio Gadda per capire che essa non è in discussione e con un piccolo sforzo si poteva anche ricostruire la storia suburbana del più vasto territorio di cui la Brianza è parte, iniziata negli anni ‘80 del XIX secolo lungo i tracciati delle Ferrovie Nord Milano e legata da novant’anni agli sviluppi della metropoli lombarda grazie alla prima autostrada d’Europa.
È sintomo di ritardo culturale il fatto che si faccia fatica in Italia a prendere atto di quanto lo sviluppo di certe aree del paese abbia avuto effetti territoriali molto simili a quelli che si sono prodotti dall’altra parte dell’oceano, almeno dal secondo dopoguerra in poi. Malgrado anche gli stili di vita ci dicano di quanto abbia sempre meno senso rifugiarsi nelle identità locali, perché ormai il modo in cui si abita, lavora, ci si sposta, consuma è sempre di più improntato a paradigmi globali, rimane culturalmente predominante l’abitudine italiana di attribuire al luogo in cui si vive una capacità di diversificazione che attiene agli aspetti del paesaggio, del clima, del cibo e della parlata. È il radicamento di un’idea di “paese” i cui contorni sono progressivamente svaniti sotto l’effetto confondente della cosiddetta globalizzazione, che non è solo uno slogan ma un reale processo di cambiamento del paesaggio, del cibo, della parlata e, come ben sappiamo, del clima.
Succede allora, come nel caso del film di Virzì, che provare a descrivere come il processo globale di finanziarizzazione dell’economia stia modificando l’esistenza degli abitanti di un territorio, già profondamente trasformato da un secolo e mezzo d’industria, scateni l’accusa di attribuire a quel luogo i caratteri negativi che sono invece di certi personaggi che, come succede ovunque nel mondo economicamente sviluppato, cercano di fare soldi smaterializzando la loro attività e scommettendo sulla capacità distruttiva del mercato. Così la Brianza (quella che sta forse solo nella testa di qualche assessore brianzolo) si è sentita accusata di essere la matrice delle cattive qualità dei personaggi di un film, nel quale peraltro viene solo evocata, attraverso la pretesa che l’abitarvi connoti meglio di ogni altra cosa lo scommettere sulle crisi cicliche dei mercati finanziari e l’avidità del fare soldi con i soldi.
Come lo sfondo della narrazione di Human Capital, il libro da cui il film è tratto, è l’esempio da manuale della condizione di vita suburbana nella quale non a caso si svolge la vicenda di Revolutionary Road (il romanzo di Richard Yates ambientato in una zona del Connecticut, dove tre villaggi ipertrofici erano da poco confluiti a formare un unico centro lungo un’ampia e rumorosa autostrada), così il paesaggio che fa da sfondo a Il capitale umano fa idealmente riferimento ad un luogo che ha evidenti relazioni con l’immaginaria Brianza de La cognizione del dolore piuttosto che con una geografia precisa. È a Milano, come uno dei centri della finanza globale, che si gioca il destino dei protagonisti, travolti da una crisi imprevista nelle loro vite apparentemente in ascesa. È questo l’unico riferimento preciso ad un luogo e non è un caso che il film sia stato investito dalle polemiche localiste sul presunto discredito gettato sulle location, poiché essa di fatto non ha identità propria se non quella di essere lo scenario, più o meno di lusso, dove risiedono i personaggi che vi sono raccontati.
Eppure non è difficile accorgersi, vedendo il film anche senza sapere che è tratto da un romanzo statunitense, di quanto sia cinematograficamente molto “americana” la descrizione della way of life dei protagonisti: dalla prestigiosa scuola privata per i figli dell’alta e media borghesia ai riti di celebrazione del proprio status sociale. Anche l’esclusione sociale descritta attraverso la figura del drop out, che s’insinua nelle pieghe dell’upper e middle class, cioè nell’unico dato socialmente compatibile con il contesto territoriale, ed il suo essere la sola ragione dell’esistenza di uno stato sociale altrimenti superfluo ci ricorda quanto le società da una parte e dall’altra dell’Atlantico siano simili.
È davvero sintomo di una grave miopia non aver visto il tipo di trasposizione territoriale operata da Virzì, che forse avrebbe fatto meglio a non evocare nessun nome per descrivere i luoghi in cui ha girato il film evitando di scatenare il localismo così intimamente radicato in questo paese, al di là dei consensi raccolti su questa base da una forza politica come la Lega Nord. E anche le recensioni che hanno evitato la trappola localistica non si sono accorte che è ora di chiamare le cose con il loro nome, suburbio e non provincia. Sembra che nessuno sia consapevole di quanto, anche da noi, la mutazione suburbana di paesi come l’immaginario Ornate del film fosse già stata ampiamente metabolizzata dai figli dei protagonisti, la generazione di adolescenti motorizzati cresciuta, per dirla con le parole di Richard Yates, in case in cui loro abitavano senza peso (…) buttate lì a casaccio, come una quantità di giocattoli nuovi di zecca lasciati fuori dall’uscio, durante la notte, a prendere la pioggia.
Ordinaria suburbanità dunque, della Lombardia pedemontana e dei molti territori che continuano a rivendicare un’identità locale avendola da tempo abbandonata e che non si rendono conto che a tornare in dietro si trovano solo ridicole caricature, come la figura di consigliere comunale leghista che nel film è invitato a proporre un programma per rilanciare uno storico teatro abbandonato da decenni.
Sarebbe auspicabile che anche grazie a questo film si affermasse la consapevolezza della suburbanità come condizione nella quale vivono gran parte degli abitanti delle aree urbanizzate, tra loro prive di particolari distinzioni da un punto di vista funzionale. Anche a Varese naturalmente, da sempre suburbio milanese che ha cercato un’identità urbana attraverso l’erronea formula della “città giardino”. Forse il disagio a riconoscere la suburbanità deriva dalla sua connotazione “degenerante”, come se il suburbio fosse sinonimo di povertà esistenziale e non una condizione condivisa con buona parte di quel cinquanta per cento di popolazione umana che vive in ambiente urbano. Materia per psicoanalisti ed antropologi, ma che dovrebbe interessare anche chi decide le politiche di sviluppo urbano e che, in assenza di una visione chiara del contesto in cui dovrebbe operare, non si capisce bene quali processi intenda governare. È quindi bene che vadano a vedere Il capitale umano coloro che in questi giorni stanno discutendo sugli indirizzi urbanistici di una città dalla dubbia identità urbana.
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