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Cultura

UNA VOCE RITROVATA

LINDA TERZIROLI - 23/01/2014

Se Daria Menicanti fosse un uomo, “giusto un uomo”, un Giulio Preti ad esempio, le sue poesie sarebbero più note, più diffuse nelle antologie novecentesche, e raccolte tutte, anche quelle inedite, nel caldo e ospitale rifugio di un Meridiano Mondadori, allineato, con devozione, sull’alto scaffale che sale fino al soffitto, come una scala a pioli, nell’intima e accogliente sala dedicata agli studiosi di autografi, nel Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia.

Fra quelle preziose carte, fra quei delicati e umani manoscritti, chiusi e sepolti come corpi, dentro a tenere casseforti grigie nelle camere a sinistra dell’ingresso, trovano un cantuccio benedetto anche le carte della poetessa Menicanti, dopo un viaggio non lungo ma curioso (come spesso queste migrazioni della salvezza) a bordo di una Fiat 500, grazie alla lungimiranza di un filosofo al volante, Fabio Minazzi, accompagnato dalla nipote toscana della poetessa, Licia Giorgina Pezzini.

Tuttavia, benché si tratti, in parte, di una questione di genere, come spesso è avvenuto in Italia per grandi poetesse, è anche una questione di carattere. Pochi conoscono Daria Menicanti perché lei stessa non si è mai voluta mescolare all’intellighentia ufficiale, si è rifiutata di entrare dalla porta principale degli “addetti ai lavori”, di camminare sul palcoscenico della ribalta letteraria.

Insegnante prima che poetessa, ha iniziato a emergere relativamente tardi, pubblicando la sua prima raccolta a cinquant’anni, poiché anche le prime poesie giovanili appartenevano a una vita “troppo privata e segreta” (p. 680). Non sfuggono però alcuni ingredienti, taluni indizi che certamente non possono passare inosservati; il suo matrimonio con il filosofo Giulio Preti, un connubio forse più di menti che di cuore?, la sua frequentazione del professor Antonio Banfi, professore di estetica alla Regia Università di Milano, fulcro attorno a cui è nata la cosiddetta “scuola di Milano”, una fitta messe di pensatori, scrittori, poeti, come Antonia Pozzi, Vittorio Sereni, tanto per citare due esempi significativi.

“Il gruppo di cui Giulio e io facevamo parte contava tra gli altri Enzo Paci, Remo Cantoni e Vittorio Sereni: io ci stavo bene con quelli, mi scaldavo alla loro amicizia, mi schiarivo alle loro idee” (Daria Menicanti, Vita con Giulio, p. 681).

Da dietro le quinte dove si trovava amabilmente a vivere “questa vita lirica privata assai privata”, è proprio il poeta e amico Vittorio Sereni a convincerla a pubblicare Città come nella collana de Il Tornasole, nel 1964, e poi due raccolte, Un nero d’ombra, nel 1969, e Poesie per un passante, nel 1978, per Lo Specchio, sempre per la Mondadori. Inspiegabilmente poi, o forse in virtù della sua selvatichezza, una volta che Sereni non si trova più a lavorare in Mondadori, le sue poesie vengono rifiutate e la Menicanti ricorre a case editrici anche sconosciute, piccole come Quinta generazione e Lunario nuovo. Ultimo quarto esce, nel giugno 1990, per Scheiwiller, così si consuma una risalita del crepuscolo, con la prefazione di Lalla Romano, sua eterna, fedelissima amica.

Poi un convegno dedicato nel 2011 al primo e unico marito, Giulio Preti, e si apre uno spiraglio di luce sulle liriche della poetessa “nata per caso a Piacenza il 6 aprile 1914”, ma vissuta “prevalentemente a Milano dove ha compiuto gli studi e dove si è laureata in estetica con Antonio Banfi” (p. 675), e l’idea di un poeta, fra i suoi primi amici, Silvio Raffo, trova negli strumenti del filosofo Minazzi, direttore del Centro internazionale insubrico, la realizzazione editoriale. In tal modo, grazie a quelle singolari comunioni di intenti che talvolta avvengono per il bene della letteratura, ha preso corpo, anzi corposità, questo bel volume che raccoglie l’opera omnia di Daria Menicanti, Il concerto del grillo, a cura di Raffo, Minazzi e Brigida Bonghi, di cui sono presenti importanti contributi critici.

Ritroviamo e riscopriamo la voce della poetessa che apre uno spaccato di vita mondana, rivelando di aver conosciuto colui che è stato suo marito per diciassette anni, dal 1937 al 1954, proprio ad un ballo, nella Milano frizzante degli anni Trenta.

“Fu a un ballo che conobbi Giulio Preti, in una malinconica sala da tè milanese: me lo presentarono gli amici come un giovane filosofo di severa cultura e sul punto di affermarsi. Lo guardavo ballare e mi chiedevo come quel baluginante arruffato ragazzo di provincia – veniva da Pavia – oltre che studioso di cose astratte fosse anche un cultore della danza. Ma più tardi, discorrendo con lui, seppi con quanta serietà considerasse quell’arte: la danza, secondo lui, era il modo in cui il corpo pensava… e quelli che la disprezzavano avevano una mentalità da “curati e vecchie zie” e avrebbero fatto bene a liberarsene.” (p. 679)

Forse non è casuale che Daria Menicanti abbia conosciuto il suo consorte a un ballo, in un momento danzante, solo apparentemente così lontano dalla filosofia. Eppure, se per il giovane allievo banfiano la danza è un’arte, per Daria Menicanti sono le parole limpide e pregne a danzare sullo spartito del Canzoniere per Giulio come nelle altre raccolte poetiche. Parole di un grillo come lei stessa ama definirsi, tra ironia e serietà.

 “E sono anche molto fiera di possedere questa dote dell’ironia che ho certamente ereditato dalla famiglia toscana di mio padre. Il senso dell’ironia, ovvero la capacità di vedere sempre le cose un po’ scherzando, un po’ comunicando i propri pensieri più veri e riposti.” (p. 779)

 L’amicizia fra Daria e Giulio come un incontro tra poesia e filosofia scivola poi “inconsultamente in uno strano e confuso matrimonio” che si spende in un “clima variabile” (p. 681), per precipitare poi in una altalenante tetraggine, che contribuisce ad aprire un gelido ventaglio d’ispirazione, di mai monotona vena poetica nei suoi versi. Una vita di stravaganti spese e dissipata tra angosce e frustrazioni. Inizia a tingersi “di nero il cielo” del loro “povero matrimonio” (p. 683).

“Vent’anni! E ad ogni svolta/ Mi aspettavo qualcuno./ Un poeta/ Un filosofo/ Un σωτήρ/ Un donchisciotte/ Un bruto e collatino./ Ero pronta a morire/ A vivere per una/ Di queste ESSENZE.// Poi/ Ho trovato te:/ giusto un uomo./” (Epigramma I, p. 113)

Del resto, ai frequenti attriti e alle incomprensioni, spesso dovuti all’ostinato e implacabile rigore di lui, il filosofo poneva fine con un epitaffio graffiante per la Menicanti, lei che era “una donna” e, perciò, “non poteva capire” (p. 683).

Dal canto suo Daria commenta, nel suo dissacrante epigramma contro il matrimonio (p. 344): “La vita depredata oncia per oncia/ dall’altro – un assassinio quotidiano/ così – non lo si paga che io sappia”.

Eppure la poetessa capiva perfettamente quel “lavorio/del cervello”, “il suo perfezionarsi” (Commutazione, p. 747) che impediva al filosofo di trovare pace, in un’inquietudine caparbia e rigorosa, sin dalla delusione e dall’attrito con il maestro Antonio Banfi, che a lui sembra aver tradito la Verità, agli anni difficili dell’età più matura, circondato dall’affetto di sparuti amici. In Epigramma per un filosofo (p. 284), dedicato chiaramente a “G.P.”, il ritratto poetico del filosofo splende stilizzato come i suoi bozzetti, nude parole scolpiscono la sua vita e il suo destino.

 “Mai ti perdoneranno il tuo non fare/ comunella con gli altri, il tuo non essergli/ uguale./ E questo soprattutto: amare/ Più che gli uomini, la verità.” Verità con la lettera maiuscola dovrebbe essere “l’essenza del filosofo” secondo la Menicanti che nel marito riconosce l’unicità come privilegio e come limite agli occhi degli altri.

Alla filosofia come fuoco della scrittura, Daria Menicanti predilige di gran lunga i filosofi: Eraclito, sant’Agostino, Socrate, Bertrand Russell come protagonisti e personaggi dei suoi versi. La vena poetica diviene teoretica nella raccolta Ultimo quarto e il “pensiero si fa poesia in una straordinaria fusione simpatetica di astrazione e canto”, secondo le parole del critico Raffo. La filosofia, però, non è che una delle chiavi interpretative del corpus poetico menicanteo, dacché è la stessa poetessa a rivelare che non è importante l’ideologia, l’opinione, il pensiero ma “quel che conta è sempre la parola, la sua nuda essenza, più vera di ogni filosofia” (p. 32).

Infatti per gli amanti degli animali, e non solo per gli entomologi, il “bestiario” della poetessa è ricco e ironico, un’arca lirica di Noè, sintesi dell’enorme affetto che la Menicanti ha nutrito per cavalli, gatti, animali di ogni sorta e soprattutto per la “stirpe canina”, tra cui emerge Fuchs il cane lupo. Fu lui il suo grande amore, “barbaro” compagno immortalato sulla copertina (del volume), che, nonostante la poco poetica museruola, trascina la padrona al centro dell’obiettivo e della strada, in una Milano degli anni Cinquanta, in bianco e nero.

Dal florilegio delle sue liriche emerge dunque una poetica che è stata definita “completa” e “sapienziale ma ben radicata nell’esistenza” (Lalla Romano), quasi oraziana, non immediatamente definibile, poiché ironica, mordace, sentimentale, lirica, caricaturale come lei, attraverso un linguaggio sorvegliato e mai casuale, libera e prigioniera al contempo dal “credito di amarezza” per definizione sereniana, di una vita “ironica leggera e all’apparenza felice” (Poeta, p. 70):

 “In giro me ne vado come un cirro/ silenzioso color ombra. Mi piace/ stare alto sui tetti a galleggiare/ guardando. Io mi sento un palloncino/ fuggito dal suo grappolo: una cosa / ironica e leggera e all’apparenza / felice ”.

Daria Menicanti, Il Concerto del Grillo, L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvio Raffo, Mimesis / Centro internazionale insubrico, Milano-Udine 2013

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