Quando dalla loggia di San Pietro il cardinale Jean-Louis Tauran annunciò al mondo che il Conclave aveva prescelto quale 266° papa «Georgius Marius Bergoglio – Franciscum», sicuramente non si rese conto che stava mettendo in scena la rivincita della storia, ma su quest’asserto torneremo appresso, per adesso limitiamoci a osservare che Bergoglio è il papa dei primati. Egli, infatti, è stato il primo pontefice ad avere assunto il nome del poverello di Assisi; è il primo papa proveniente dai gesuiti; è il primo papa del continente americano; è il primo papa che, prima di rispondere alla vocazione religiosa, abbia fatto il buttafuori in un «locale discretamente malfamato», come pudicamente riportarono alcuni quotidiani argentini.
Queste riflessioni folcloriche in verità non ci impedirono, la sera del 13 marzo 2013, di soppesare attentamente il primo discorso di papa Francesco. Ebbene, riteniamo che già da quell’esordio si potessero cogliere delle sfumature che, secondo noi, erano anticipo di un lucido programma di governo della Chiesa del terzo millennio: non vi comparve mai la parola “Papa” sostituita – la bellezza di sei volte in appena diciannove righe! – da quella di “Vescovo”. In tale discorso intravedemmo il ridimensionamento della supremazia di Roma sulle altre chiese periferiche: «… incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese». “Presiede” non primeggia! Insomma il nuovo papa ci sembrò proporsi più come coordinatore della Chiesa che non come il suo supremo capo terreno e, d’impatto, si valutò negativamente una tal evenienza che, secondo noi, non sarebbe stato un bene perché, lungi dal perseguire la sua unità, avrebbe, in qualche modo, favorito la trasformazione satellitare della Chiesa.
Abbiamo avuto, poi, tempo e modo di soffermarci sul lavoro del papa e metterlo in relazione con un particolare passaggio di quel suo primo discorso e, così, di desumere dove egli intenda realmente condurre quella Chiesa che, dopo lo scisma protestante, sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia: «Mi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo […] sia fruttuoso per l’evangelizzazione…». Che bella la parola “evangelizzazione” per un pastore di anime. Era dal Concilio Vaticano II che non la sentivamo frequentemente pronunciare oltre le mura leonine. Questo pontefice che si propone nell’inedita veste di evangelizzatore si spiega con la sua provenienza dai gesuiti, da quella “Compagnia di Gesù” fondata da Sant’Ignazio di Loyola che aveva fatto dell’evangelizzazione e dell’assoluta obbedienza al papa la sua ragione fondante. Anche se sul piano fisico l’attuale pontefice è l’opposto di Sant’Ignazio che i cronisti dell’epoca descrissero come «… piccolo, magro, di profilo tagliente, e come consumato da una febbre che gli accendeva gli occhi neri e intensi», riteniamo che ambedue abbiano avuto, fin dal primo momento, nitidissima l’idea di come servire la Chiesa.
Le similitudini, però, non finiscono qui perché se Ignazio era un ex militare che portò nella “Compagnia di Gesù” lo spirito di sacrificio e una ferrea disciplina, Francesco sta mettendo nel suo pontificato lo spirito di quel semplice, ma anch’esso ferreo, pragmatismo che gli deriva dai suoi trascorsi secolari: è il perseguimento dello stesso obiettivo per vie diverse. È il caso di chiarire, preliminarmente, che i gesuiti non sono stati quell’accolita di fanatici come più volte nel corso degli ultimi tre secoli – in specie durante l’Illuminismo – si è cercato di farli apparire, anzi, essi erano talmente immuni dal fanatismo che, unici nella Chiesa del tempo, si tennero ben lontani dall’Inquisizione. Questa precisazione si è resa moralmente obbligatoria perché la “Compagnia di Gesù” ha sempre annoverato tra le sue fila uomini di grande cultura e versati in ogni campo del sapere umano. Non a caso presso i loro istituti e università un tempo si formava la classe dirigente europea e del Nuovo Mondo. Con l’avvento dell’Illuminismo accadde quel che pare stia accadendo oggi con l’esponenziale affermarsi di una globalizzazione spersonalizzante e anarchica: fu messa in discussione ogni cosa, valori, etica, letteratura filosofia e perfino la religione nell’ambito di quell’accesa e più vasta disputa sulla giurisdizione tra lo Stato e la Chiesa che fu appunto chiamata col nome di “Giurisdizionalismo”.
In parole semplici successe che, dovendo affermare il primato del diritto positivo sulla religione, all’epoca in verità debordante, gli Stati guardavano con sempre maggiore insofferenza alla Chiesa e ai suoi indomiti gesuiti che furono cacciati da gran parte d’Europa compresa l’Italia. Nel 1773 il papa Pio VII addirittura soppresse l’ordine che sarà ricostituito soltanto nel 1814, dopo la sconfitta di quell’indecifrabile figlio dell’Illuminismo che fu Bonaparte.
Comunque andò, sta di fatto che con gli studi scolastici affidati allo Stato, o alla Chiesa sotto controllo statale, con l’affermazione del pensiero di Voltaire sull’educazione studentesca, con la penetrazione in massicci strati della società del sapere proveniente dalla prima enciclopedia pubblicata – senza l’imprimatur della Chiesa – da Diderot e D’Alembert, i gesuiti persero molto del loro originario prestigio anche se rimasero gli indefettibili guardiani della dottrina della Fede. Va da sé che i modi di evangelizzare non sono standard ma diversi in rapporto ai tempi e ai luoghi, e il non aver voluto tenerne conto ha, spesso, esposto la Chiesa a quello che definiamo il “rischio del troppo”, cioè o troppo indietro, o troppo in avanti sui tempi.
Il seggio di Pietro, infatti, è stato occupato da papi conservatori fino al Concilio Vaticano II, da papi innovatori dopo. In ogni caso è chiaro che, nel 2014° dell’era cristiana, un’era in cui la coscienza dei singoli bisogna andare a cercarla nel malmostoso universo del social network, non avrebbe nessuna fortuna un approccio con la fede come quello di Ignazio di Loyola. In verità, non crediamo neppure che l’evangelizzazione diverrà più spedita ed efficace affidandola unicamente a Internet come s’inclina a fare, e ciò per una ragione piuttosto semplice: le ideologie/parole e le classiche icone hanno fallito, nella politica, nella cultura, nella finanza e, in parte, anche nella Chiesa perché a esse non sono seguiti gesti coerenti e convincenti. Ciò almeno fino all’avvento di papa Francesco.
Ricordate che all’inizio abbiamo accennato a quella parte del suo discorso in cui il pontefice parlava di evangelizzazione? Ebbene, si ritiene che questo papa abbia voluto ricordare le proprie origini gesuitiche per dare corso a un’inedita opera di evangelizzazione che non adoperasse i toni millenaristi di Sant’Ignazio, né come lui pratica l’ascesi attraverso la mortificazione del corpo (anche se siamo convinti che, come Ignazio, Francesco porti il cilicio…), ma di certo non è meno tenace di quella del fondatore del suo ordine religioso. Francesco, infatti, ha fatto riscoprire al suo gregge il valore della carità concreta e non “filosofica”, della preghiera operante, del sacrificio ragionato, del digiuno purificatore e – inedito tra gli inediti! – il dovere di ricercare la felicità su questa terra.
Insomma, scacciati dagli Stati illuministi, perseguitati, derisi e perfino abbandonati da un papa nonostante la loro inossidabile fedeltà a Gesù, a quasi duecento cinquant’anni dalla soppressione dell’ordine gesuitico, è toccato proprio a un gesuita occupare lo scranno di Pietro e che forse sarà il papa della grande riforma (o Controriforma?) della Chiesa ma anche della rivincita sulla storia.
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