Basterebbe un solo film, un solo titolo, “Gioventù bruciata” (Rebel Without a Cause), il film che decretò la gloria imperitura dell’attore protagonista – Jimmy Dean – a sancire in modo definitivo anche la grandezza del regista: Nicholas Ray.
Quando Ray girò “Gioventù bruciata” – nei tabellini il film porta la data del 1955 – aveva quarantaquattro anni ed era già un autore affermato a Hollywood, benché, nonostante i successi conseguiti da più che solido e affermato professionista dell’arte, non si potesse considerare a pieno titolo un regista del “sistema”, piuttosto un intellettuale di sinistra, forse anche uno sperimentatore. E ciò, molto probabilmente, in virtù delle sue amicizie e delle sue frequentazioni.
Proveniente da una famiglia di origini tedesche – lo erano i suoi nonni paterni – era nato nel 1911 nel Wisconsin con il nome di Raymond Nicholas Kienzle. Aveva studiato architettura: le biografie lo citano come allievo di Frank Lloyd Wright, il grande architetto americano. Ma coltivò anche il teatro, fu amico di Thornton Wilder (Il Ponte di San Luis Rey, Piccola Città… ) e di Elia Kazan, un sodalizio che – con ogni probabilità – lo portò nel mezzo degli anni Cinquanta a scegliere proprio il giovanissimo James Dean, che Kazan prediligeva, nel suo film più famoso.
Nel carnet non c’è solo “Gioventù bruciata”, naturalmente. Da noi sono molto noti due western un po’ atipici: “All’ombra del patibolo” (Run for Cover), anch’esso del 1955, con James Cagney, Viveca Lindfors e John Derek, e “Johnny Guitar” con Joan Crawford e Sterling Hayden, del 1954. Il primo – “All’ombra del patibolo” – passa abbastanza spesso sulle nostre Tv commerciali, specie in occasione di prolungati periodi festivi; James Cagney, che all’epoca aveva già cinquantasei anni, recita non tanto agilmente nei panni di uno sceriffo che, dopo una vita scombussolata e non sempre al servizio della legge, trova la fiducia e anche l’amore. Del secondo, “Johnny Guitar”, un vero capolavoro, da un po’ di tempo non si hanno notizie, nemmeno in Tv e nemmeno in tarda serata. Eppure, per certi versi, fu da noi un film quasi “generazionale”, se non altro per la colonna sonora – il motivo aveva lo stesso titolo del film – scritta da Vicor Young e cantata da Peggy Lee; un brano struggente, un evergreen del mondo della canzone.
Tra le altre cose, fu esattamente in alcune sequenze di “Johnny Guitar”, per esempio nella ricostruzione del saloon di proprietà di Vienna (la Crawford), e nei suoi interni a piani sovrapposti, che alcuni critici hanno intravisto l’influenza e i consigli dati dall’architetto Wright all’allievo cineasta; così come, sempre per rimanere a “Johnny Guitar”, è da rimarcare la collocazione del saloon incastonato tra le rocce e posto a dominare la valle aperta, costruzione che rammenta la “casa sulla cascata” di Wright, e poi una particolare tecnica nell’uso dei colori del film.
Lo scavo e l’attenzione della psicologia dei personaggi, in ogni caso, determinarono le caratteristiche di Nicholas Ray. Ha scritto il critico Fernaldo Di Giammatteo: “Gli emarginati sono al centro dell’interesse di questo autore sospeso fra le leggi dell’industria e il gusto della sperimentazione. Quando ottiene una sintesi fra le opposte esigenze, è in grado di esprimersi con sincera e forte partecipazione…”. Un pregio, quello di essere presente con “stile emotivo”, come ha sottolineato invece Tommaso Iannini, ma anche il difetto di produrre opere talvolta forzose, barocche, un po’ sovraccariche.
La sua vita privata – negli anni Cinquanta tanto controversi e discussi anche nel clima hollywoodiano, si pensi al maccartismo e alla “caccia alle streghe comuniste” – fu abbastanza travagliata. Si sposò quattro volte: con la giornalista Jean Evans, da cui ebbe un figlio, quindi con l’attrice Gloria Grahame, con la ballerina Betty Utley, dalla quale ebbe due figlie, e infine con Susan Schwabs. Una vicenda scandalosa, vissuta proprio agli inizi degli anni Cinquanta – Ray trovò la moglie Gloria Grahame a letto con il figlio adolescente – lo turbò profondamente, ma non al punto di condizionarne in modo negativo il lavoro, pur in un’America molto bacchettona e più di oggi gossippara.
A perdere di mordente furono i suoi ultimi film: importanti, ma non esprimevano più quella cifra “alla Nick Ray” che l’aveva contraddistinto. “Il re dei re” (King of Kings), del 1961, e “55 giorni a Pechino” (55 Days at Peking), del 1963, furono considerate “opere professionali” ben dirette ma non dei capolavori. Eppure il Nick intellettuale, caratterizzatore piacque sempre: in America – Martin Scorsese è stato ed è un suo grande fan – e soprattutto in Europa: Ray era amatissimo da Jen-Luc Godard e da François Truffaut, che ricordava il suo primo film, “La donna del bandito” (They Live by Night), del 1948 e, in particolare, da Wim Wenders, che nel 1979/80 girò insieme con Ray “Lampi sull’acqua – Nickk’s movie” (Lightning Over Water). Il film descrive gli ultimi giorni di vita, e la morte dunque, dello stesso Ray minato da un tumore. Un film controverso, “La più ‘crudele’ delle dichiarazioni d’amicizia”, quella tra Wenders e Ray, ha scritto Paolo Mereghetti.
Ma se il film descrive la fine di Nicholas Ray, la fine dell’ “involucro corporeo”, non ne determina la scomparsa dello spirito, grande e universale nel cinema e nella storia.
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