Trent’anni fa a Città del Messico due nuovi record dell’ora in cinque giorni a firma Francesco Moser, classe 1950, il grande campione trentino di Palù di Giovo da molti esperti dell’epoca ritenuto ormai ai titoli di coda della carriera. Due record che – pochi lo ricordano – ebbero una decisiva componente varesina perché le ruote lenticolari, assoluta novità tecnologica, furono messe a punto dalla Logos Compositi di Somma Lombardo, una società che all’epoca lavorava nel campo aerospaziale, il cui titolare operava di concerto con i professori Dal Monte e Conconi, con il medico Enrico Arcelli, varesino doc, e il dottor Sorbini dell’Also Enervit, con Aldo Sassi e con la famiglia Moser titolare dell’omonima fabbrica di biciclette che produsse il telaio ad asse variabile, vale a dire con la ruota anteriore più piccola rispetto a quella posteriore.
Una stagione di grande creatività, un progetto in cui Francesco Moser, uomo di antiche diffidenze montanare, si calò a poco a poco fino a convincersi che quella proposta poteva essere una svolta per lui e per il ciclismo intero. Mesi di lavoro, di indagini fisiologiche sul ciclista, di prove nella galleria del vento, di test. Nulla doveva essere lasciato al caso. Il traguardo era superare il limite fissato nel ’72 da Eddy Merckx a 49,432 km. Il 19 gennaio 1984 Moser percorse in un’ora 50,808 km, quattro giorni dopo mise piede a terra dopo 51.151 km.
L’intero mondo del ciclismo guardò stralunato a quella performance incredibile che scatenò dubbi e illazioni di ogni genere dalle quali si è sempre difeso affermando: “ …non feci nulla di cui dovessi vergognarmi. All’epoca c’erano regolamenti ben precisi, e noi tutti ci attenemmo a quei regolamenti”. Regolamenti che, per esempio, non vietavano l’ autoemotrasfusione oggi assolutamente proibita. Fu l’inizio di un anno trionfale, il 1985, con la vittoria alla Milano –Sanremo e al Giro d’Italia, discretamente addolcito nelle pendenze sempre piuttosto ostili alla sua poderosa mole di formidabile passista, e con una tappa a cronometro conclusiva che gli consentì di recuperare il ritardo accumulato nei confronti di Laurent Fignon, l’intellettuale d’oltralpe prestato al ciclismo, scomparso due anni fa con due Tour e un Giro nel palmarés.
Fu una rinascita in grande stile che convinse Checco, in un pomeriggio settembrino di sole tiepido, a far suo anche il record dell’ora a livello del mare nell’indimenticabile cornice di un velodromo Vigorelli già acciaccato dall’incuria e dalla nevicata fuori norma dell’inverno precedente che aveva spazzato via la vecchia copertura delle tribune e delle curve. Per la TSI andai a trovarlo a casa sua, a Palù, un villaggio in cima a un’erta scoscesa in Val di Cembra. Al di là dell’atleta stupendo incuriosiva la famiglia patriarcal – moderna acquartierata nel centro storico e, con case di sobria eleganza, al limite dei vigneti di proprietà.
C’erano tutti, salvo il fratello frate in Canada ma c’era soprattutto Aldo, il primogenito, il capo clan nato diciassette anni prima di Francesco, corridore di grande qualità in salita e sul passo che, giovanissimo, aveva incrociato i ferri con Coppi, con Magni, con tutti i migliori del tempo, dodici vittorie in carriera e una galassia di piazzamenti prestigiosi. Diceva che le frequentazioni varesine per il record gli avevano rammentato la Tre Valli del ’55, l’unica della storia disputata a cronometro, e finita alle spalle di un Coppi intrattabile.
Raccontava anche che la vocazione di Francesco per il ciclismo l’aveva scoperta nel corso di un’ascesa al Pordoi quando non era riuscito a toglierselo dalla ruota nonostante il fratellino avesse nelle gambe pochi chilometri di allenamento. Tornati a baita, lo aveva “costretto” a darsi alle due ruote nonostante avesse già diciotto anni, un’età avanzata per esordire. Aveva senza dubbio visto giusto dal momento che Francesco è ancor oggi il ciclista italiano che ha vinto più corse in assoluto: duecentotrentasette.
L’ora di Moser scatenò una corsa tecnologica pazzesca, altri atleti realizzarono tentativi vincenti finché il 6 settembre 1996 l’inseguitore inglese Chris Boardman spinse il record a Km 56.375 utilizzando una bici fantascientifica, di rara bruttezza ma di formidabile efficienza. Un mezzo che metteva in discussione il concetto stesso di bicicletta che necessitava ormai di una precisa ridefinizione regolamentare.
Nel 2000 la Federazione internazionale tagliò la testa al toro declassando i record stabiliti facendo ricorso a una sorta di “doping meccanico” a semplice “miglior prestazione umana mondiale” e riassegnando quindi a Merckx il vero record. A migliorarlo con bici da pista tradizionale, come imponevano le nuove regole, fu ancora una volta Boardman: 49,441 nove soli metri oltre il “cannibale”. Nel 2005 il ceco Sosenka fece, a sorpresa, ancora meglio: km.49,700. Quest’ anno potrebbe essere infatti la volta buona per Fabian Cancellara e Tony Martins, due specialisti del cronometro fra i più forti di sempre.
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