“In principio è l’uomo. E l’uomo è presso Dio. E l’uomo è a immagine di Dio”. Non tacciatemi di blasfemia o “hybris” demoniaca se ho osato storpiare le prime parole delle Sacre Scritture, ma il percorso che voglio tracciare con queste tre brevi frasi è quello che dovrebbe guidarci tutti i giorni a cercare lo sguardo dell’altro, coglierne la profondità irripetibile e accostarla a un’origine che non può essere altro che creaturale, derivata cioè da quello che di non dicibile, di misterioso, forse intuibile in brevi spazi di silenzio, da togliere il fiato, ci rende vivi; è questo che anima l’incontro del medico, credente o ateo che sia, di destra, di sinistra, universitario o ospedaliero.
C’è solo l’uomo e la sua salvezza al centro. Tutto il resto è manifesta diavoleria, tentativo di fiaccare gli sforzi e la perseveranza della cura; dividere è il risultato bramato da chi non vuole al centro l’uomo, ma se stesso, dimenticando la sua fragilità di creatura. Ed è così che viviamo quando siamo paradossalmente tranquilli, quando il trascorrere delle nostre giornate non ci mette veramente in crisi ma ci culla nel gioco del costruire fazioni, nell’immaginare schieramenti, posizioni, barricate che vengono spazzate da un sottile alito di vento solo quando l’uomo torna al centro della cura.
Crisi, l’ho già detto ma lo ripeto questa volta con accento più forte, più programmatico, vuole dire scelta, decisione, e se chi è sotto la pressione di una crisi sceglie l’uomo, che ispira la sua vita di incontri e professionale, dopo uno sguardo d’intesa ai compagni di viaggio, sceglie quello come obbiettivo; il resto, le attribuzioni di carriera, i blasoni accademici o le ambizioni primariali segnano il passo, e il risultato è parlarsi a viso aperto, sputare anche il veleno accumulato in tanti anni di faziosità, ma poi tornare all’uomo sofferente; non c’è altro. E così si riscopre la natura profonda, l’immagine di Dio nell’uomo che chiede, ma anche il volume umano di chi con noi lavora magari da sempre e nel segreto perduto di un linguaggio schietto, che sa d’infanzia (età tragica, diceva Alberto Savinio, sincera e amorevole fino alla crudeltà assoluta) diventa specchio e immagine dell’altro; si impara a cogliere lo sforzo, le fatiche del compagno, la sua storia fatta di delusioni, di braccia abbandonate lungo i fianchi in segno di resa, di rabbia covata a lungo, e lentamente somministrata come veleno nell’orecchio del padre di Amleto per anni e anni facendoci diventare brutti, stanchi, logori.
Da qui risorgono stima, sorpresa, entusiasmo per progetti e futuri condivisibili, torri di Babele che sia possibile costruire perché il codice che accomuna tante lingue diverse è finalmente decifrato, un codice che dica a tutti che la strada è l’uomo e il suo mistero e non il mio piccolo mattone, prezioso perché concorre al risultato, ma che con il suo peso distoglie il mio sguardo dal vertice della torre e lo concentra nei pochi centimetri quadrati che devo colmare con il mio, solo mio, sforzo.
Il nuovo anno è stato salutato, nella neurochirurgia del nostro Ospedale, in sala operatoria dove un’equipe di uomini e donne ha aiutato un’altra persona a sperare di vivere questo 2014 (nessuno ne ha parlato, non chiedo certo di pubblicare il programma operatorio del nostro Ospedale sul Corriere (!) ma per dovere di cronaca si trattava della medesima patologia che ha colpito l’onorevole Bersani). La crisi, la scelta è stata fatta, c’è l’uomo al centro, e si lavora tutti i santi giorni perché si possa onorare questa decisione, questa cesura tra ciò che divide e ciò che invece importa. E così Babele diventerà una città bellissima.
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