In inglese si dice homeschooling e, come spesso accade, il fenomeno vede la luce in America negli anni ’70 del Novecento. In Italia sta prendendo piede da poco ma conta già un piccolo numero di seguaci. Secondo il Messaggero, articolo dei primi giorni dell’anno, le stime vanno da un numero di trecentocinquanta fino a mille “homeschooler”, con un gruppo in crescita anche in Lombardia. Leggendo di questa novità, anni addietro, mi ero fatta l’idea che, almeno negli Usa, la scelta di far studiare i propri figli a casa avesse qualche relazione con le distanze esistenti, ad esempio, tra il ranch sperduto, o il villaggio del nord dell’Alaska e la scuola più vicina. Credevo che le tecnologie, permettendo lezioni in videoconferenza, accesso al sapere online, contatti diretti con i docenti, avessero fatto il resto.
Anche nel nostro paese questa possibilità esisteva da più di un decennio: riguardava casi di bambini e ragazzi affetti da patologie invalidanti, permanenti o temporanee. Vicino a noi, nella sezione di scuola ospedaliera del “Del Ponte” di Varese, alcuni piccoli degenti avevano potuto seguire le attività di classe della vicina scuola Parini proprio tramite videoconferenza.
Oggi invece è in aumento il numero delle famiglie che scelgono di non mandare a scuola il proprio bambino per motivazioni di ordine ideologico: perché non nutrono alcuna fiducia nei confronti della scuola o perché ritengono di poter insegnare ai propri figli, da soli o con un istitutore, meglio della scuola, più della scuola. Decidono che è un valore poter assecondare i ritmi di apprendimento del bambino, scegliere tempi, modi, materiali, programmi e orari, magari con un istitutore privato laddove non riescono a intervenire direttamente.
Ma l’istruzione non è un dovere oltre che un diritto? Sì, ma il nostro ordinamento prevede la scuola “familiare” basata sul consenso dei genitori che comunicano alla direzione scolastica l’intenzione di occuparsi personalmente dell’istruzione del proprio figlio, dovendo garantire allo Stato solo di possedere un livello di istruzione adeguato al compito.
Un po’ come avveniva nel passato con i precettori delle famiglie benestanti. Nessuna lezione in classe, né compagni e né programmi stabiliti. Né vacanze e né orari ben scanditi. Con l’homeschooling si studia in autonomia. A scuola non si va. L’istituzione per la quale nell’Ottocento e nel Novecento si sono condotte fior di battaglie, sarà superata? Siamo lontani dall’abolizione della scuola, idea non nuova. Il futurista Giovanni Papini nel 1914 lanciò un Manifesto per l’abolizione della scuola come istituzione, prigione per bambini e ragazzi dai sei anni in su, per tutta la durata dell’infanzia e della giovinezza. Il filosofo e pedagogista di origine austriaca Ivan Illich divenne noto negli anni ’70 del secolo scorso con il rivoluzionario testo dal titolo “Descolarizzare la società”. Niente di nuovo, dunque?
Qualche preoccupazione per chi come me ritiene fondamentale il ruolo della scuola, luogo principe dell’istruzione e della socializzazione. Per chi crede che la scuola abbia garantito il dovuto riscatto a intere generazioni di uomini, offrendo gli strumenti della conoscenza a tutti. Pur con i tanti limiti che riconosciamo alla scuola di un paese come l’Italia che investe ancora poco nell’istruzione. A differenza di nazioni evolute, come quelle del Nord Europa che considerano un vanto offrire a tutti cultura e conoscenza così come si garantiscono casa, salute e supporto sociale.
Forse non è un caso che il sito dei genitori italiani che aderiscono al movimento dell’homeschooling si chiami: www.controscuola.it.
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