È esperienza comune del normale fruitore televisivo di essere, durante la visione di un film magari particolarmente ben fatto e coinvolgente, bruscamente aggredito da un’interruzione pubblicitaria che cade durante un dialogo intenso o nel corso di una sequenza decisiva all’interno della trama tessuta dal regista. Fratture sempre più frequenti e sempre più incuranti di ciò che interrompono. Così può capitare che in mezzo a uno degli imperdibili dialoghi di un capolavoro come Gosford Park di Robert Altman entri, inopinata, la pubblicità di un pannolino o di un digestivo senza il minimo rispetto per l’ignaro e indifeso spettatore.
Fino a non moltissimi anni fa si aveva almeno la civile avvertenza di fare inserimenti meno invasivi, meno traumatici per l’opera in sé e per chi la stava vedendo, almeno da parte delle reti RAI della quale si sta festeggiando il sessantesimo compleanno con ampie celebrazioni e nostalgiche, zuccherose, rivisitazioni. Posto che credo nessuno, neppure il suo più fiero avversario, possa mettere in discussione il ruolo decisivo svolto nel primo quarto di secolo della sua storia, sia pure monopolistica e condizionata dalla politica, sul piano informativo, culturale e dell’intrattenimento, sarebbe oggi invece molto importante rilanciare una discussione seria, fuori da schemi precostituiti e strumentalizzazioni di parte, sull’opportunità o meno del permanere di un servizio pubblico radiotelevisivo nel mercato italiano.
Prima di tutto bisogna prendere atto che, piaccia o meno, l’avvento delle reti commerciali ha definitivamente messo fuori gioco la Tv pedagogica della fase nascente caratterizzata dall’unicità dell’emittente e dall’unidirezionalità del messaggio dove gli spettatori non scelgono, accettano. Come diceva Regis Debray, raffinato intellettuale francese anni ’60: “Un complemento della pubblica istruzione” in un’Europa che aveva come riferimento fondante il proprio patrimonio culturale. Dall’altra parte dell’Oceano invece si è imposta la Tv commerciale in un quadro informativo da sempre fortemente concorrenziale anche a livello radiofonico e di carta stampata, ovvero i media come business. Quindi il nuovo medium venne percepito come una grandissima opportunità per incrementare i consumi nel mercato subito diventato riferimento fondante della Tv USA. Un modello quest’ultimo che a partire dagli anni ’80 si imporrà, con non trascurabili differenze tra un paese e l’altro, anche nella vecchia Europa.
Il caso Italia è noto e anomalo al tempo stesso con il maggior competitore della RAI, Silvio Berlusconi, che con le sue reti si è fatto strada nella politica e nell’etere evidenziando uno scandaloso conflitto di interessi – che nessuno ha mai seriamente affrontato – tra il suo ricorrente ruolo di primo ministro e quello di padre padrone dell’unico polo televisivo privato concorrente del servizio pubblico. Risultato: una corsa al peggio tra due giganti oligopolisti e generalisti impegnati a catturare audience e quindi pubblicità a qualsiasi prezzo confinando i programmi di maggior qualità alla periferia dei palinsesti. Con l’aggravante per il servizio pubblico di essere percettore di un canone obbligatorio per legge e di sfornare programmi in larga parte non molto differenti da quelli prodotti dai privati. Un’anomalia tutta italiana che resta tale nonostante l’offerta RAI si sia considerevolmente allargata con una serie di buoni canali tematici e l’affermarsi della Tv a pagamento di Sky.
Il nodo vero è il permanere di tre reti generaliste RAI che hanno costi elevatissimi, uno stuolo sterminato di dipendenti e programmi spesso sovrapponibili. Ne basterebbe una sola, affiancata dalle tematiche, aperte alle “contaminazioni” coi nuovi media, tutte seriamente impegnate a fornire un servizio pubblico di alta qualità, affrancato dalle varie sudditanze politiche, nettamente alternativo ai privati. Un modello nuovo da costruire guardando alle esperienze francesi e inglesi sia per quanto riguarda l’impalcatura legislativa sia per i contenuti.
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