Da qualche anno accarezzo l’idea presidenzialista. Eppure mi sentivo un convinto parlamentarista e proporzionalista (rito tedesco). Era l’eredità culturale della DC e soprattutto della sinistra DC che faceva della centralità del Parlamento un totem intoccabile.
Nel bipolarismo della Prima Repubblica (DC e PCI con i loro alleati) nessuno metteva in discussione che il Parlamento e solo il Parlamento potesse eleggere il presidente del Consiglio (una sorta di primus inter pares) frutto degli equilibri dei partiti e delle correnti che per un lunghissimo tempo, anteriormente al loro degrado finale, erano state la forza propulsiva e unitiva della DC.
Il PCI, con una cultura assai diversa, convergeva sulla stessa logica. Era un partito centralista come nessun altro con un Gruppo Dirigente Nazionale potente e prestigioso e un Segretario Generale dotato di enorme autorità verso il quale si sfiorava il culto della personalità (Togliatti, Berlinguer). Le loro decisioni si eseguivano e basta. Stranamente per la sua concezione politica, ma molto comprensibilmente per la situazione italiana, anche il PCI era parlamentarista e aborriva il governo forte che sarebbe stato nelle mani della DC.
Solo Bettino Craxi negli anni Ottanta aveva intuito la necessità della riforma della Costituzione in senso presidenziale, progetto che DC e PCI avevano immediatamente archiviato perché non ci credevano e anche perché temevano l’ascesa socialista. Finito irreversibilmente quel sistema per il crollo del muro di Berlino, il logoramento politico ed etico della classe dirigente, lo statalismo insostenibile, la Seconda Repubblica ha cercato invano con i sistemi elettorali maggioritari l’efficienza istituzionale che non ha più trovato né con le ammucchiate prodiane né con le maggioranze berlusconiane, queste ultime per mancanza di senso dello Stato e inadeguatezza di governo, compresa in prima linea la Lega.
La realtà è che i partiti dei primi quarant’anni di Repubblica, in grado di guidare le mitiche masse con l’aiuto dei sindacati, di associazioni e movimenti molto radicati, non torneranno più.
Oggi abbiamo un mondo globalizzato con una società frazionata e una confusione politica che ha raggiunto vette impensabili. Servono istituzioni forti. Al riparo della stabilità da loro assicurata i partiti potrebbero ritrovare la strada per un buona riforma di sé stessi e della politica.
Pensare di voltare pagina soltanto con l’ennesima legge elettorale è una illusione. È necessario invece mettere mano, bene e con calma, alla Costituzione ma dopo una seria discussione pubblica e magari qualche preventiva consultazione popolare. Sarebbe molto utile porre al centro del dibattito la forma presidenziale (quella francese ad esempio) con dei forti contrappesi istituzionali sia centrali che territoriali. È probabilmente l’unico sistema che in Italia potrebbe garantire la certezza del governo per quattro/cinque anni senza i ricatti dei piccoli partiti. Capisco la contrarietà a questa soluzione (molto diffusa nella sinistra) ma non si dica che sarebbe poco democratica. È un’opinione infondata e stravagante.
Avrei voluto che di questo tema si parlasse nel recente congresso del PD ma sbagliavo. Eravamo troppo aggrovigliati nell’emergenza più grave della Repubblica e questo Parlamento non ha la legittimità per produrre una riforma di tale profondità. Adesso si vari una buona legge elettorale e si assegni soltanto alla Camera dei deputati il compito di dare la fiducia al governo. Ma in prospettiva la riforma della seconda parte della Costituzione è ineludibile.
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