Vera Vigevani Jarach ha ottantasei anni. È una donna minuta, i capelli candidi, il sorriso triste. È nata a Modena nel 1928. Nel marzo 1939, un anno dopo l’emanazione delle leggi razziali, è partita con la famiglia, i genitori e una sorella, da Genova su una nave arrivata a Buenos Aires quindici giorni dopo. In Argentina è rimasta per sempre. Quella decisione, voluta soprattutto dalla madre l’ha salvata. Gli ebrei, come è noto, tardarono a comprendere il loro futuro scritto nelle famigerate disposizioni volute dal fascismo. Gli ebrei, colti, scolarizzati al più alto livello della popolazione italiana, quarantamila in tutto, l’uno per per mille dei quaranta milioni di abitanti dell’Italia, non capivano per quale ragione dovessero essere perseguitati. Erano perfettamente integrati, avevano condiviso il regime, dell’italianità avevano fatto la loro bandiera, si era battuti sui campi di battaglia meritando onori e medaglie, si erano affermati nelle discipline mediche e scientifiche, avevano fatto carriera nella magistratura e nell’avvocatura, erano stati anche ministri del duce, e allora perché avrebbero dovuto temere per la loro vita? Non esisteva nessuna ragione al mondo per fare le valigie e fuggire. Ma quelli che, come i Vigevani, avevano deciso il grande balzo intuendo il domani che, sotto la Repubblica Sociale Italiana dalla “separazione” si sarebbe manifestato con “l’annientamento”, avevano visto giusto.
Vera Vigevani Jarach nel 1939 aveva undici anni. Era una bambina. Ha fatto la giornalista, corrispondente dell’Ansa da Baires per trent’anni. È stata fra le fondatrici delle “Madri di piazza de Majo”, l’Associazione che raccoglie le famiglie segnate dalla dittatura di Videla e che combatte per conoscere la verità sui “desaparecidos”. Nel marzo del 1976 ha perso la figlia Franca, diciotto anni, rapita dagli “squadroni della morte”, detenuta e torturata nella caserma dell’ESMA, la polizia segreta della Marina, gettata viva nell’Oceano da un aereo militare con altri centotre compagni di scuola del “Colegio Nacional”.
Con questa donna straordinaria, fiera, salda nei suoi principi, ho trascorso un’intera giornata prima del Natale sulle tracce del nonno materno (fratello della madre) Ettore Felice Camerino, settantaquattro anni, veneziano,vedovo, antiquario, residente a Milano, ucciso al suo arrivo ad Auschwitz il 6 febbraio 1944.
Ettore Camerino non aveva voluto abbandonare l’Italia. La sorella (madre di Vera) aveva insistito che se ne andasse ma lui era apparso irremovibile. Si era fatto una sola concessione trasferendosi nel 1942 da Venezia nel capoluogo lombardo. Una misura precauzionale per un avvicinamento al confine italo-svizzero in caso di necessità.
Quel momento estremo si materializzò il 30 novembre 1943 quando il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, il più “tedesco” dei ministri di Salò, emise il famigerato “Ordine di Polizia n. 5” che prevedeva l’arresto immediato di tutti gli ebrei (esclusi per il momento i “misti”, sottoposti a un serrato controllo personale), il loro internamento in campi di concentramento provinciali (a Varese non furono creati per una voluta titubanza del prefetto Pietro Giacone) e la confisca dei loro beni mobili ed immobili.
Fu in quelle ore che Ettore Camerino dovette lasciare Milano raggiungendo Lavena Ponte Tresa, uno dei luoghi più battuti dalla fuggiasca comunità ebraica per la facilità dei passaggi oltre confine. Il tentativo fallì. Il 3 dicembre 1943 Camerino fu arrestato alla rete da militi italiani mentre tentava di superarla. Trasferito in carcere dai tedeschi a cui era stato affidato il 5 dicembre, poco dopo venne trasferito a San Vittore e da lì il 30 gennaio 1944 ad Auschwitz dove fu eliminato.
Vera Vigevani Jarach ha voluto vedere i luoghi dell’arresto, della detenzione, della morte. Lavena Ponte Tresa, Varese, Auschwitz. Non ha mai pianto. Ha immaginato il calvario dell’amato nonno. Ha pensato intensamente alla figlia.
A me ha lasciato un ricordo che rimarrà incancellabile. Il suo rigore morale, la sua onestà intellettuale, la sua voglia di non cedere mai e di ottenere verità e giustizia. Mi ha regalato il suo ultimo libro, I ragazzi dell’esilio. Argentina 1975-1984, Edizioni 24 marzo Onlus, Roma 2013, con la toccante dedica A Franco nel ricordo di Franca. In più mi ha messo fra le mani una bella manciata di monete che ho già distribuito. “Dalle ai mendicanti”, mi ha detto. Con il pensiero era tornata a quello che, fra le tante cose, le avevo detto della Varese di oggi. “In città la Giunta comunale ha lanciato la campagna contro i mendicanti con spiegamento di forze e tanta pubblicità”.
A quella vergogna, prima di darmi le monete, Vera era andata. Fra la “caccia ai mendicanti” e quella “agli ebrei”, fatte le debite proporzioni, avrà pensato, non c’é poi tanta differenza. In fondo l’obiettivo é sempre lo stesso, la “diversità”.
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