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Società

E IO CHI SONO?

ROMOLO VITELLI - 10/12/2011

 

L’aneddoto che racconto è datato negli anni Ottanta ed ha, solo per certi aspetti, un singolare protagonista: un insegnante dei corsi serali di lingua e cultura italiana, dirigente di un sindacato cattolico degli insegnanti di lingua e cultura operanti in Germania. Come ho avuto già modo di ricordare, nel precedente mio scritto, gli insegnanti, per i quali le autorità consolari avevano chiesto il mio intervento d’aggiornamento, avevano una scarsa o nulla attenzione per le problematiche dell’immigrazione, nonostante i corsi fossero riservati ai figli degli immigrati italiani all’estero.

 I più si limitavano ad impartire un corso di lingua e cultura, come se fosse destinato ad alunni di lingua madre che vivevano in Italia. In realtà si trattava di adolescenti di “seconda generazione di immigrati,” figli di italiani, nati e cresciuti nella Repubblica Federale Tedesca o arrivati molto piccoli che avevano frequentato in Germania le scuole primarie e le medie. Questi ragazzi conoscevano il passato della loro famiglia, veicolato dal “lessico famigliare” del dialetto d’origine dei loro genitori e insieme, sentivano di avere radici nella società in cui stavano crescendo e in cui imparavano a guardare al futuro con le stesse aspirazioni dei coetanei tedeschi, condividendone la lingua, il bagaglio di formazione scolastica e i contenuti ricevuti dai mass media e dalle grandi agenzie formative.

Essi, il più delle volte, anche se a fatica, cercavano di prendere confidenza con un paese che era già il loro, sostenuti pochissimo dai genitori o dalla comunità d’origine d’appartenenza. Avevano iniziato la loro esperienza al seguito della famiglia, ma la stavano proseguendo sentendo di appartenere alla terra che abitavano in quel momento. Per questo vivevano l’ambivalente condizione di essere “cittadini di due mondi. Sperimentavano la doppia appartenenza alla cultura d’origine e a quella del paese ospitante; volevano chiamarsi tedeschi senza rinnegare le radici famigliari: due identità sentite come proprie. Ma questa situazione faceva vivere loro spesso acuti contrasti con i genitori che sfociavano anche in liti furibonde, fughe da casa o in casi estremi anche in tentativi di suicidio, soprattutto da parte di ragazze che reclamavano per loro gli stessi spazi di libertà di movimento che vivevano le coetanee e compagne di scuola tedesche del mattino. La mentalità dei genitori emigrati, figli di una civiltà agricolo – industriale di provenienza, chiusi nel loro mondo ristretto e limitato cozzava con quello industriale – agricolo e consumistico dei propri figli. I genitori, non sufficientemente integrati nella nuova realtà, mal sopportavano il tipo d’abbigliamento alla moda che reclamavano i loro figli, ma anche la richiesta pressante di uscite serali dopocena o peggio il permesso di recarsi in discoteca, che sempre con più insistenza rivolgevano loro i figli e soprattutto le figlie, che vedevano con amarezza e rabbia che le loro coetanee tedesche non vivevano quelle stesse problematiche. Purtroppo queste questioni non trovavano quasi mai spazio per discussioni nei corsi serali di lingua e cultura italiana, né come tematiche di riflessioni durante le lezioni, che avevano per lo più un’impostazione vetero – umanistica.

Ciò lasciava che i ragazzi vivessero in solitudine le contraddizioni dell’immigrazione senza che alcuno li aiutasse ad avere coscienza della fase evolutiva convulsa e complessa che stavano vivendo come adolescenti ed “immigrati di seconda generazione;” con tutti i rischi e le conseguenze negative che una ritardata e disorganica definizione della loro identità avrebbe comportato per loro. E pensare che, già negli anni Settanta ed Ottanta, la letteratura sulle problematiche adolescenziali nell’immigrazione era abbastanza ricca: molti erano i diari e i racconti di giovani e meno giovani che affrontavano la tematica dei cittadini: “A mezza parete,” come recitava un famoso titolo di un libro di allora su queste tematiche. Perciò feci di tutto per raccogliere e portare al corso un variegato materiale e una ricca bibliografia di opere vicine alla sensibilità di giovani immigrati. Così, dopo aver raccolto tutti gli elementi informativi sui destinatari del corso, elaborai il mio progetto d’aggiornamento che inviai in Germania. Il corso venne approvato e si svolse per una settimana intera a Friburgo. Tutti gli insegnanti erano stati invitati caldamente dai rispettivi dirigenti a parteciparvi. Vennero tutti i docenti in servizio tranne uno: il protagonista di questo curioso aneddoto di cui racconterò tra breve: un dirigente sindacale degli insegnanti operanti in Germania. Mi avevano riferito che “non aveva bisogno di essere aggiornato;” e di aver aggiunto: “Ma chi è poi questo prof. Vitelli delle Scuole Europee? che ne sa dei nostri problemi, di noi insegnanti all’estero?”.

Il corso era iniziato con molto interesse da parte di tutti i partecipanti ed eravamo gia al terzo giorno di proficuo lavoro, quando la Preside mi informò che nel pomeriggio si sarebbe unito a noi il sindacalista che non aveva aderito inizialmente. Quando arrivò mi venne presentato e la segretaria del corso gli diede i materiali che erano stati distribuiti precedentemente agli altri. Quel pomeriggio, alla fine della lezione, era prevista la proiezione in videocassetta del bel film “Pane e cioccolata,” di Franco Brusati con Nino Manfredi et alii. Il film del 1974, com’è noto, tratta il problema dell’emigrazione. La trama la ricordo sommariamente per chi non rammentasse o non conoscesse il film. L’emigrato italiano (Manfredi), cameriere nella linda Svizzera, compie l’efferato crimine di orinare in pubblico, perdendo lavoro e permesso di soggiorno: comincia così una vita di clandestinità fino al disperato e fallimentare tentativo di simulata arianità con tintura bionda ai capelli. Nonostante l’ingombrante presenza di Manfredi, che non rifiuta nessun vezzo gigionesco, il regista Brusati riesce ad affrontare il tema dell’emigrazione senza cadere nel populismo e lavorando efficacemente sul registro grottesco-surreale.

Dopo una mia breve presentazione del film cominciò la proiezione. Verso la fine, -nella scena in cui, per restare in Svizzera, Manfredi accetta un lavoro in nero e va a vivere in un pollaio in mezzo ad altri italiani, clandestini come lui, che per sopravvivere si erano ridotti a bestie, macellando brutalmente del pollame tra lazzi, frizzi e scherzi a dir poco primitivi e da trivio- il protagonista si gira e stravolto si chiede: “Ma io chi sono? Chi sono io?” cercando di rendersi conto di che cosa gli stesse accadendo in quel preciso momento nella sua travagliata esistenza di immigrato. Gli altri clandestini, che si erano presi sino ad allora gioco di lui, esclamano tutti meravigliati, seguitando a deriderlo: “Oh, Dio poveretto non sa più chi è!,”. A questo punto un grido angoscioso e lacerante, proveniente dalle prime file dell’aula proiezione, ruppe il silenzio: “Ed, io, chi sono io?”. Accesi la luce, fermai il video-registratore e vidi che, in piedi nella stanza, c’era il nostro sindacalista, abbastanza sconvolto ed agitato, che seguitava a ripetere: “ E io, chi sono? Sono qui in Germania da 15 anni, ma non sono tedesco e non mi sento più nemmeno italiano; questo film che parla di noi e della nostra condizione e dei nostri ragazzi mi ha toccato profondamente. Mi sta aiutando a prendere coscienza dei miei problemi; penso che possa essere un utile strumento per discutere tra noi docenti, con gli studenti e con i genitori per cercare di riflettere sulla nostra vita di italiani all’estero.” La proiezione riprese e alla fine fu salutata da un lungo applauso e si concluse con una bella ed utile discussione, che permise di affrontare tematiche relative all’educazione e alla fruizione critica del messaggio filmico, di analizzare i passaggi essenziali del film sulle questioni relative alle tematiche dell’immigrazione. Trovammo anche un momento per operare qualche riflessione sulla lingua italiana e i dialetti dei vari protagonisti, nonché operare una particolare e singolare forma di riflessione morfo-sintattica che spinse un insegnante ad esclamare: “professore, vale più la pratica che la grammatica”!

Sono passati molti anni da allora e in me è ancora viva quell’atmosfera educativa calda ed affettuosa. Con alcuni di quegli insegnanti ho mantenuto una qualche forma di rapporto, con altri: Franca di Costanza e Mariella di Ravenna, affettuosi, frequenti e fraterni contatti, che continuano sino ad oggi. Alcuni anni fa ricevetti una cartolina da una brava partecipante a quel corso di Friburgo; era tornata al Ministero degli Affari Esteri per partecipare nuovamente al concorso. “Caro prof., sono qui a Roma in attesa di essere convocata per il colloquio orale: con i ricordi mi rituffo nel nostro caro corso di Friburgo e con un’amica mi rileggo i suoi appunti di allora.” Un abbraccio.

 

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