Non ce la faccio a decifrare il complesso movimento, alias “casino”, che ha assunto il caustico nome di “forconi”, pur assemblando componenti diversissime per provenienza geografica, sociale ed economica. Per di più, mi leggerete tra quattro giorni, quindi qualcosa si sarà chiarito, oppure vieppiù complicato. Anche l’amico Sebastiano Conformi, mia musa per contrasto, di solito così netto nel prendere posizione e quindi nel suggerirmi il paradosso, non sa raccapezzarsi. Ha solo coniato uno slogan (ma forse l’ha copiato): “meglio forconi che forchettoni”.
Il riferimento alla propaganda quarantottesca fa un po’ sorridere, ma fa capire almeno una cosa, che siamo tornati indietro, non solo ai bisogni elementari, al piatto di pastasciutta che comincia a mancare su molte tavole, ma alla qualità dell’analisi politica, che nel ’48 accomunava comunisti e qualunquisti a quel più basso livello, che oggi i fini analisti benparlanti chiamano, con sottile disprezzo “pancia”.
Non mi ha stupito il tentativo di cavalcare la tigre da parte di chi sta fuori dal governo, ben sapendo di non essere chiamato in vece di quelli a dare le risposte pertinenti. Mi stupisce la difficoltà da parte della politica, della cultura e dell’informazione a capire che si sta scherzando col fuoco e che la posta in gioco non è la spartizione di qualche osso scarnificato gettato alle categorie nella legge di stabilità o evitare gualche colpo della spending rewiew. C’è in gioco qualcosa di più importante della stessa credibilità delle istituzioni, dolorosamente minata da una sentenza della Corte Costituzionale certamente coerente, ma capitata in un momento quanto mai improvvido, per di più appesa ad un’incertezza sostanziale, in attesa delle motivazione.
Ecco perché il Governo non può sbagliare la risposta ai “forconi”, ma non la può dare da solo, nell’assenza di giudizio di tutta la società civile, nell’assenza di un tentativo di parlare chiaro al popolo, unico modo per ricominciare un percorso educativo, di richiamo alla verità e alla concretezza, dopo decenni di populismo e di messaggi inviati solo alla “pancia”. E come pensate che la pancia risponda, con che voce?
Penso ad altre piazze, ben più calde delle nostre, nonostante il clima, a quelle dell’Ucraina. Mi pare che se la passino meno bene di noi e che il loro Paese, la loro società sia divisa in modo ancora più drammatico. Mi colpisce che l’unico motivo per cui sono in piazza è l’opposto di uno di quello sbandierato dai meno rozzi dei nostri protestatari: loro vogliono entrare in Europa, quando qualcuno di noi ne vuole uscire. Non mi dilungo su questioni economiche, monetarie e di mercati; conoscendo un poco quel mondo, ho la certezza morale che ciò che muove gli oppositori ucraini è un bisogno di libertà, di democrazia e più ancora di verità, che neppure da noi è scomparso, ma è quasi del tutto sommerso dai particolarismi e dagli opportunismi.
Che cosa può accadere da noi? Una riconciliazione nazionale o una contrapposizione ancor più dolorosa di ceti sociali e di aree geopolitiche del paese sono due strade che oggi hanno la stessa possibilità di essere percorse, la seconda con gravi conseguenze, in assenza di interventi autorevoli provenienti dalla società, prima ancora che dal Governo. Ci sono ancora valori condivisi cui appellarsi, ci sono corpi intermedi tra l’individuo e lo Stato che possono svolgere quel compito di educazione, di informazione corretta, di attivazione di risposte di sussidiarietà ai numerosi bisogni del popolo per i quali lo Stato si rivela sempre più impotente. Non molti anni fa, è una stagione che ho vissuto con faticosa e dolorosa partecipazione, il nostro Paese è sfuggito ad un rischio mortale quando finalmente furono emarginati i cattivi maestri che insegnavano “né con lo Stato, né con le Brigate Rosse”. Oggi la faccenda è diversa, occorre costruire insieme piuttosto che combattere quel “nemico assoluto” che è il diverso, l’altro-da-sé, cui attribuiamo la causa dei nostri molti mali e dalla cui sconfitta aspettiamo la palingenesi della nostra vita.
“Con lo Stato e con i Forconi” non può essere uno slogan, mi guardo bene dal proporlo. Eppure solo in un paradosso simile ci può essere il seme di un cambiamento.
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