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Politica

MATTEO & MATTEO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 13/12/2013

Matteo Salvini e Matteo Renzi, entrambi quarantenni, sono stati eletti segretari nazionali rispettivamente della Lega e del Partito Democratico. L’unica qualità che li accomuna è l’età anagrafica (Salvini è del ’73 e Renzi del ’75), circostanza non trascurabile in un sistema, come quello italiano, dominato dalla gerontocrazia. Le modalità di scelta, la base elettorale, la diversa vaghezza dei programmi sono invece del tutto diverse: Salvini ha ricevuto l’ottanta per cento dei voti da parte da qualche migliaio di iscritti (che hanno inflitto a Umberto Bossi, l’altro candidato, una umiliante ma prevista sconfitta); Renzi invece è stato eletto con larga maggioranza attraverso le “primarie” a cui hanno partecipato quasi tre milioni di cittadini. È un segnale di rinnovamento o soltanto un fatto di ringiovanimento generazionale?

Non si può ancora dire perché in questa fase congressuale è mancata la discussione sui contenuti politici. Diceva il politico democristiano Luigi Granelli: quando il dibattito sulle idee sparisce restano solo i contrasti personali. Si discute più di forme organizzative, di statuto, di regole, che di programmi. In una situazione di crisi economica e morale come l’attuale, se i partiti non hanno le idee chiare non solo su cosa fare ma anche come farlo, la società si abbandona alla sfiducia, alla indignazione e alla rabbia. La frantumazione della lotta politica è il risultato di una ben più grave perdita di valori e di principi, di una drammatica frammentazione della coesione sociale.

Con Matteo Salvini la Lega ha preso atto del fallimento dello sgangherato progetto di federalismo che ha portato alla moltiplicazione dei centri di spesa pubblica e allo spreco delle risorse pubbliche anche per usi illeciti dei singoli dirigenti politici. Adesso punta su un obiettivo “nichilista”, quello di uscire dall’euro e mettere così a rischio il progetto delle passate generazioni di creare l’Europa unita. Dimentica come la nostra lira era la causa principale dell’inflazione, della perdita del potere d’acquisto, della polverizzazione dei salari e delle pensioni, della drastica diminuzione dei piccoli risparmi familiari. Eppure i piccoli imprenditori che la sostengono dovrebbero ricordare quanto era complicato importare le materie prime per il processo di trasformazione in manufatti da esportare. Invece di guardare al futuro si volge a un passato che è stato grande solo quando si è realizzata l’integrazione dei popoli europei con la libera circolazione di merci, capitali e persone.

La lettura della dinamica congressuale del Partito Democratico, a livello nazionale, è abbastanza chiara: la segreteria Bersani aveva avviato negli anni scorsi un processo consapevole e culturalmente agguerrito di restaurazione del partito oligarchico di massa, seguendo la traccia di un’analoga impostazione, ma più flessibile e più sofisticata, da parte di D’Alema, fatta propria da Epifani e raccolta da Cuperlo.

La restaurazione ideologica di Bersani era tutt’altro che ingiustificata ma, a tacer d’altro, si basava sull’esito catastrofico del “berlusconismo” che ha aperto un nuovo spazio per gli eredi dei partiti di massa, con la loro identità collettiva e il loro radicamento territoriale, ma non ha approfondito le ragioni del fallimento della linea già intrapresa da Veltroni per realizzare il “partito leggero”, tutto leadership e comunicazione che, alla prova dei fatti, si è dimostrato incapace di realizzare la governabilità. La linea Bersani – D’Alema – Cuperlo, caratterizzata nettamente a sinistra, ha suscitato i sospetti di una parte del Partito che ritiene siano state alterate le origini genetiche del nuovo soggetto politico, e la base del PD ha premiato l’approccio innovativo e l’affabilità verso la gente dimostrata dal sindaco fiorentino.

Renzi ha impresso realmente un approccio nuovo alla politica che è stata trasformata da “guerra di posizione” in “guerra di movimento”, ma in questi ultimi mesi, il nuovo leader non è andato oltre la critica e le generiche indicazioni esigenziali: non ha dimostrato una reale profondità di analisi e non è riuscito a formulare una proposta convincente di “governance” del Paese. Non è solo un problema del Partito Democratico: “I Partiti politici – diceva Oscar Wilde – sono gli unici luoghi rimasti dove la gente non parla di politica”.

Infine la candidatura di Civati, che ha ricevuto un significativo consenso, è servita alla riaggregazione di una componente giovanile più spostata verso una posizione di sinistra moderna.

In sintesi, Renzi ha avuto ragione nel temere di “trasformare il futuro in una discarica” ma puntando solo sui metodi, sulle regole, sulla comunicazione rischia anche di cadere nell’errore di mettere i mezzi al posto dei fini e di trasformare la politica in una “tecnicalità” senza scopo e, forse, senza senso. Dopo avere “rottamato” l’apparato adesso deve dimostrare di saper guidare il partito con una linea politica realista che sappia dare fiducia alla gente che lo ha votato: “La sfera pubblica – ha scritto il filosofo Habermas – costituisce lo spazio dove la società esercita il controllo sui luoghi di potere”.

La leadership è un dato di fatto imprescindibile della personalizzazione della politica ma il sistema può essere devastante se diventa una fusione tra populismo, telecomunicazione e privatizzazione dei partiti.

Dagli eventi di questi giorni e degli ultimi mesi emergono tuttavia due certezze: la prima è che in Italia esistono moltissimi cittadini, onesti e responsabili, che credono ancora che “la politica è la forma più alta di carità” (Paolo VI) e che attraverso la partecipazione disinteressata è possibile reagire con senso di responsabilità al disfattismo. Le seconda è che il Partito Democratico, di fronte agli estremismi e alle debolezze degli altri soggetti politici, è praticamente l’unica forza di riferimento seria per la democrazia italiana.

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