Ci sono due voci, due cantanti rappresentativi di due gruppi che hanno segnato un’epoca, intorno agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e che ancora oggi, benché non siano più tra noi, vengono ricordati e giustamente celebrati per la loro bravura e per le loro capacità, oltre che per la carica umana. Si tratta di Demetrio Stratos, dei Ribelli prima e degli Area poi, e di Augusto Daolio, mitico leader dei Nomadi.
I Ribelli era il complesso che, ai tempi del Clan, faceva da supporto alle performance di Adriano Celentano, così come i Fuggiaschi poco dopo cominciarono ad accompagnare le esibizioni del “luogotenente” Don Backy. Demetrio Stratos (ma per l’esattezza il suo nome e cognome era Eustratios Demetriou: in arte li aveva invertiti), nato ad Alessandria nel 1945 da famiglia di origine greca, era entrato nel gruppo alla metà degli anni Sessanta (tra gli altri vi avevano fatto parte Gianni Dall’Aglio e il nipote di Celentano Gino Santercole). Con i Ribelli Demetrio Stratos partecipò anche al Festival di Sanremo del 1966, il Festival del beat, presentando la canzone “A la buena de Dios”, passata quasi nel dimenticatoio. Il grande successo, per i Ribelli e per Stratos, arrivò l’anno successivo, il ’67, con “Pugni chiusi”, di Dall’Aglio, Beretta e Ricky Gianco, brano che il gruppo portò anche al Cantagiro. Il particolare timbro di voce di Demetrio, che cantava, e l’intro musicale con tocchi d’organo sono patrimonio della straordinario mondo della canzonetta e di ogni appassionato. Pochi anni dopo, all’inizio dei Settanta, Stratos, che ormai aveva scelto la strada diretta di vocalist e sperimentatore, fondò il gruppo degli Area, specializzato nel progressive rock. Non riuscì a concludere il decennio: nel 1979, colpito da una forma fulminante di anemia, morì a New York. Aveva da pochi mesi compiuto 34 anni.
Ancora oggi – è stata di poche sere fa una trasmissione televisiva dedicata a lui e agli Area – viene ricordato come un grande “musicista della voce”.
Augusto Daolio aveva appena sedici anni quando nel 1963 costituì insieme con l’amico Beppe Carletti il gruppo dei Nomadi, uno dei complessi più noti e più “indigeni” della musica italiana. La la loro origine si colloca, per dirla con Francesco Guccini che ne fu amico e sponsor, nel mitico Far West della Via Emilia.
Fisico un po’ atticciato, capelli lunghi, barbetta da mormone agli inizi, e in seguito più folta, da profeta, Augusto aveva una voce chiara, e leggermente di naso e di gola, così caratteristica, specie per le reminiscenze emiliano-romagnole, da griffare subito le produzioni del gruppo. Il brano che portò i Nomadi alla notorietà – siamo al 1966, un anno centrale per il beat – fu “Come potete giudicar”, cover di “The Revolution Kind”, di Sonny Bono, presente al Cantagiro di quella stagione. Ma arrivò l’anno dopo, scritto da Guccini e De Ponti, il pezzo che non solo sancì la forza dei Nomadi, ma che anche andò a muovere le acque della morta gora su cui galleggiavano, allora, un certo perbenismo e il quieto vivere: “Dio è morto”. Il brano non passava ai microfoni della Rai i cui dirigenti sembravano particolarmente scossi e preoccupati dal titolo, mentre invece veniva trasmesso dalla Radio Vaticana, che sapeva leggerlo meglio: “…Dentro alle notti che dal vino son bagnate / dentro alle stanze da pastiglie trasformate / lungo alle nuvole di fumo del mondo fatto di città / essere contro a ingoiare la nostra stanca civiltà / e un Dio che è morto / ai bordi delle strade Dio è morto / nelle auto prese a rate Dio è morto… / …Ma penso che questa mia generazione è preparata / a uno mondo nuovo e a una speranza appena nata / … / che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge / in ciò che noi crediamo Dio è risorto / in ciò che noi vogliamo Dio è risorto / in ciò che noi faremo Dio è risorto…”. Davvero alla Rai erano – volevano essere – più realisti del re.
La canzone è tutta gucciniana, l’amico Daolio ne dava un’interpretazione sua e memorabile, anche se – dovendo scegliere – il brano più tipico e “daoliano” fu “Io vagabondo”, di cinque anni dopo, il vero, assoluto “brano nomade”, scritto da Alberto Salerno (che soltanto per questo meriterebbe un posto sulla vetta non solo nell’Olimpo della canzonetta, ma della poesia) e da Damiano Dattoli: “Io un giorno crescerò / e nel cielo della vita volerò / ma un bimbo che ne sa / sempre azzurra non può essere l’età / poi una notte di settembre mi svegliai / il vento sulla pelle / sul mio corpo il chiarore delle stelle…”. Augusto era quel bimbo, era quel nomade che scappava via nel vento e nella notte.
Per molte estati, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Augusto venne a Rimini. Insieme con la fidanzata Rosy Fantuzzi affittava una casa di viale Cormons, che diveniva la base per le esibizioni sulla costa del gruppo durante la stagione. Sempre modesto, generoso, amichevole con tutti. Ci si vedeva alla tabaccheria-bazar delle sorelle Savioli – Lilia e Adua – all’angolo della strada, verso il mare, a comperare, come quando si era ragazzini, Marlboro e mentine.
Poi, all’improvviso, arrivò anche l’estate del ’92. E l’autunno, quell’anno, fu più grigio e triste.
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