Il settantatreenne Serge Latouche incanta la platea della sala Napoleonica delle Ville Ponti con una conversazione sulla decrescita, ma non “felice”, aggettivo che i media avevano arbitrariamente attribuito al termine economico più discusso nell’ultimo decennio. Perché non può essere felice l’uomo che deve imparare a produrre di meno, a consumare più oculatamente, a riusare anziché gettare. Magari in futuro, imparata la lezione, riusciremo ad essere felici con meno, o addirittura con poco.
Prima però dobbiamo convincerci dei rischi che il pianeta, con tutti noi che lo abitiamo, insieme con la fauna e la flora, sta correndo. Stiamo ballando a bordo del Titanic senza preoccuparci della rotta. E potremmo incontrare l’iceberg, dice Latouche. Perché, una volta consumate le risorse della Terra, nel temibile giorno che gli esperti chiamano “shoot day”, l’ultimo in cui noi abitanti del Pianeta Terra vivremo con le risorse disponibili, ci toccherà vivere “in riserva”.
Viviamo enormemente al di sopra delle nostre possibilità e il problema non è solo, e non tanto, la sovrappopolazione, quanto i nostri stili di vita, i consumi, i sistemi di produzione, distribuzione, trasformazione, lo spreco eccessivo in tutti i settori, a partire dall’energia e dal cibo. Come un moderno figliol prodigo, l’uomo sta consumando il patrimonio dei genitori e non gli resterà nulla da lasciare ai figli. A meno che prenda coscienza della situazione e inverta la rotta. E si convinca che l’attuale modello di vita non è più sostenibile.
Dunque “decrescita”, in quanto quella che noi consideriamo crescita, progresso illimitato, non è perseguibile su questo pianeta, in un sistema sostanzialmente chiuso e con tempi lenti di rigenerazione. A supporto della propria tesi Latouche cita l’economista inglese Kenneth Boulding “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito è pazzo oppure è un economista!”.
La decrescita è un impegno per il benessere, per la salvaguardia degli ecosistemi, per una distribuzione più equa delle risorse. Alcuni dati ci mostrano che cosa e quanto abbiamo distrutto negli ultimi 50 anni: un terzo delle foreste, un quarto di suolo fertile, il 70% delle barriere coralline, il 25% delle specie marine, l’11% degli uccelli, il 20% dei rettili.
Cambiare rotta. Ridurre la pubblicità o almeno tassarla fortemente perché induce l’aumento dei bisogni. Invece consumare meno, possedere solo quello che serve, secondo il nuovo concetto di abbondanza frugale, sentirsi appagati perché si è parte integrante della natura, imparare a smaltire, riutilizzare, ristrutturare anziché costruire, ridurre i consumi energetici, con meno illuminazione e meno riscaldamento. Saremo più felici? Non lo sappiamo, però saremo più consapevoli. E poi, racconta Latouche, i francesi intervistati sull’argomento, si sono definiti poco felici o addirittura infelici. Però potremo essere, se non felici, almeno sereni, sapendo che non stiamo consumando in modo smodato, che la natura di cui non ci sentiamo più padroni, può essere salvata per avviarsi ad un processo di rigenerazione. Inoltre, noi occidentali che non sempre manifestiamo grande generosità verso il terzo e il quarto mondo, potremo sentirci meglio al pensiero che una maggiore frugalità porterà più cibo e più risorse ai tanti poveri della terra.
Agli eurodeputati verdi greci che gli chiedevano come uscire dalla crisi, Latouche ha risposto che per recuperare più occupazione bisogna riconvertire le attività, rilocalizzare la produzione, abbandonare l’idea che la globalizzazione sia un valore assoluto. Per restituire un futuro ai nostri figli e ai figli della Cina il cui sviluppo abnorme sta distruggendo il territorio.
Latouche ha concluso la sua appassionata difesa del mondo in cui viviamo, espressa in un italiano corretto e brillante, ricordandoci che a circolare devono essere le idee, non le merci. Mentre i capitali dovrebbero essere impiegati nella propria realtà locale e non sui mercati del mondo.
Il pubblico ha mostrato grande entusiasmo, gli economisti presenti un po’ meno.
D’altra parte, il logo delle lezioni di Latouche è una lumaca, la stessa di Slow Food: mangiare lentamente, bere bene. Il simbolo dell’andare piano, con la propria solida e piccola casa sulle spalle; il suggerimento di una vita con più momenti sottratti alla corsa affannosa del tempo presente e riconsegnati ad uno spazio anche di contemplazione.
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