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Attualità

L’IMPAREGGIABILE NARRATORE DI CICLISMO

CESARE CHIERICATI - 06/12/2013

Mario Fossati nel 1970

“Sentili i retori, i celebranti da anniversario, raccontano il Binda ma non lo hanno mai visto, ad andar bene ne hanno si e no una vaga idea” mi diceva infastidito Mario Fossati ascoltando i relatori che si alternavano al microfono. Ci eravamo ritrovati ai festeggiamenti per il centenario della nascita del campionissimo di Cittiglio, ottobre 2002, organizzati alle Ville Ponti di Varese dagli eredi di Togn Ambrosetti, il padre del ciclismo varesino.

Per Mario Fossati Alfredo Binda era stato una bruciante passione dell’infanzia, di quelle che non si dimenticano più, poi lo aveva raccontato da giornalista quando a lungo ricoprì la carica di commissario tecnico del ciclismo italiano postbellico popolato di campioni come non mai. Ne aveva conquistato la fiducia al punto che nel ’53 la Gazzetta dello Sport ritenne opportuno affidare a lui il compito di scrivere per la “Galleria dei campioni” il ritratto del grande Alfredo. Per il volume celebrativo del centenario scrisse, con la consueta evocativa asciuttezza, un pezzo il cui titolo definisce Binda come meglio non si potrebbe: “fuoriclasse moderno del ciclismo antico”.

Da alcuni anni Fossati aveva smesso di seguire le corse, si limitava a guardarle da lontano senza mai sbagliare un giudizio, una valutazione. sorridendo diceva che non aveva più senso restare nel gruppo degli inviati dove era il solo a bere ancora qualche bicchiere di vino. In realtà il ciclismo farmacologico sempre più spinto dalla pubblicità e dalla TV, solcato dal doping, esasperato nelle tecnologie, non lo sentiva più suo. Poi gli mancava Gianni Brera, l’amico di una vita, che aveva propiziato il suo approdo in Gazzetta, poi al Giorno e infine a Repubblica, lui monzese di famiglia povera, padre sindacalista cattolico antifascista, madre maestra, una vita in salita fin dalla prima giovinezza con la bruciante esperienza della guerra di Russia di cui non parlava mai come del resto tutti i pochi reduci usciti vivi dalla sacca del Don.

Diventò giornalista nel ’46 e quasi contemporaneamente sindacalista di credo comunista schierato senza remore sempre dalla parte dei lavoratori e dunque anche dei corridori. Una volta scrisse che per lui “il gesto atletico del ciclismo non stacca l’immagine dell’uomo chino alla catena di montaggio”. Per questa ragione, finché fu al Giorno, la sera spesso scendeva in tipografia, fraternizzava con i linotipisti e gli impaginatori, l’aristocrazia operaia dell’editoria, un mondo ruvido denso di un’irripetibile umanità che le nuove tecnologie hanno cancellato per sempre. In quell’ambiente familiare Fossati, di solito schivo e riservato, si apriva, raccontava aneddoti ed episodi della sua vita professionale a contatto con i grandi campioni del pedale. L’inverno evocava in lui il mondo delle Sei Giorni, le luci giallognole sull’anello dei velodromi coperti a contrasto con lo sfavillio dei ristoranti del parterre, le coppie di atleti claustrati dentro anguste stanzette con servizi in comune, costretti dal regolamento a girare, a turno, 24 ore su 24 prima che arrivasse la provvidenziale norma delle neutralizzazioni.

Una sera raccontò che nel ’51 la Gazzetta lo aveva spedito alla Sei Giorni di Parigi al seguito di Fausto Coppi. “Arrivati nella Ville lumière dopo un lungo viaggio da Milano con il Train bleu, quello di sole carrozze letto, una meraviglia; alla Gare Lyon prendemmo un taxi per raggiungere il Velodromo d’inverno in cui ci saremmo reclusi, Fausto chiese a tutti di abbassare i finestrini e all’autista di prendere la strada più lunga, voleva immagazzinare aria pura, ossigeno, prima della lunga prigionia ciclistica che un po’ lo angosciava ma che avrebbe fruttato moneta sonante”.

Quando parlava di Coppi, Mario Fossati tradiva sempre una sottile emozione, avevano condiviso pezzi importanti della loro epica giovinezza e la morte del campione, appena quarantenne, l’aveva vissuta come un’ intollerabile ingiustizia, un colpo basso del destino. Dal profilo ciclistico sosteneva che l’Olimpo del pedale era saldamente occupato da Binda, Coppi e Merckx e che se il belga era stato il più forte il piemontese di sicuro il più grande, una distinzione sottile, esatta, che fotografava due mondi, due epoche con differenti scale di valori.

Il ciclismo nelle sue diverse declinazioni (capiva e amava la pista come nessun’altro) fu di sicuro la stella polare della sua vita di giornalista ma amava molto anche l’ippica e la boxe. Una passione, quella per le due ruote, di certo alimentata fin dall’infanzia dallo zio materno Anselmo Bucci, grande pittore pesarese post impressionista, amico di Orio Vergani, che ha fissato sulla tela immagini straordinarie di Giri e Tour degli anni ’30.

Nell’autunno del 2008 il Museo Bodini di Gemonio dedicò a Bucci una grande mostra alla quale lo stesso Mario collaborò. A svelare il suo orizzonte di grandissimo cronista sportivo è proprio un colloquio con il curatore Alberto Montrasio, riportato nello splendido catalogo realizzato allora L’arte della cronaca dal Giro d’Italia al Tour de France. “Curiosamente gli sport dei quali mi sono maggiormente interessato: ciclismo, boxe e cavalli – rispondeva al suo interlocutore – pur se differenti erano accomunati dalla caratteristica di vivere oltre i propri confini. Infatti il contorno non era secondario ma diventava parte integrante delle vicende sportive. Il maggior rammarico, nel leggere le cronache odierne, è constatare l’assoluta mancanza di un quadro più ampio, cioè quello di contestualizzare lo sport alla vita di tutti i giorni”.

Chissà se le scuole di giornalismo, numerose come le primule a primavera, studieranno questo straordinario narratore di sport che ci ha lasciati, a novantun anni, la sera di domenica 1° dicembre nella sua casa milanese al Sempione.

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